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Antonio Scagloni
analysiert in seinem Aufsatz
die elf italienischen Durbridge-Verfilmungen und deren Hintergründe.
Dabei geht er auf Einschaltquoten und Reaktionen ein, beschreibt, was im
Fahrwasser der Produktionen noch alles hergestellt wurde und berichtet
über die unglaubliche Prozedur der Geheimhaltung, wer der Täter war.
Hinsichtlich dessen ließ sich die RAI allerhand einfallen: Namenswechsel
der Figuren, Verteilung der Dreharbeiten für die letzte Szene über die
gesamte Drehzeit hinweg, Aufnahmen mit Darstellern, die allein im Studio
standen und ohne Partner aufgenommen wurden, zusätzliche Szenen, die
gedreht wurden, um die Darsteller zu verwirren. Einmal wusste
schließlich selbst der Regisseur nicht, welche der Schlussszenen, die
gedreht wurden, die richtige war und musste die Entscheidung darüber
einem Beauftragten des italienischen Fernsehens RAI überlassen.
FRANCIS DURBRIDGE E
LA RAI -
Analisi di un fenomeno in una televisione che non c'è più 1) "La sciarpa" (1963) Nell'attuale mondo della televisione italiana, con canali satellitari, digitali terrestri, tematici, on demand e via web, con un pubblico che è ormai abituato a seguire quello che vuole, quando, dove e come vuole, e in cui un programma che raccoglie quattro o cinque milioni di spettatori è un grandissimo successo, può sembrare impossibile che, solo qualche decennio fa, in una televisione ancora in bianco e nero con due canali solamente ci fossero trasmissioni che registravano ascolti tre o anche quattro volte superiori e che svuotavano le vie e le piazze, i locali notturni ed i cinematografi nelle sere in cui andavano in onda. Di cosa si trattava? Del Festival di Sanremo? Dei Mondiali di Calcio? Della serata finale della Lotteria di Capodanno, o delle Olimpiadi? O magari di qualche quiz milionario? Nonostante tutti questi generi raccogliessero intorno a sé grandi consensi, le trasmissioni a cui mi riferisco nascevano dalla fervida mente di un signore di nazionalità inglese, la cui foto potrebbe sembrare più quella di un bancario che di un prolifico romanziere, e il cui nome oggi nel nostro paese è ricordato quasi esclusivamente da persone dalla mezz'età in su, che in quelle sere di cui parlavamo si radunavano insieme ai genitori, ai nonni, fratelli e sorelle, cugini e zii, intorno all'apparecchio televisivo per seguire la nuova puntata di "La sciarpa", "Paura per Janet", "Melissa" ed altri titoli che tra gli anni '60 e '70, fino a sfiorare il decennio successivo, tennero con il fiato sospeso per settimane milioni e milioni di spettatori. Il signore in questione si chiamava Francis Durbridge. Nato in un paesino dello Yorkshire, Hull, nel 1912, Durbridge fu incoraggiato a darsi alla scrittura da un suo insegnante che ne scorse le potenzialità, e fin dall'inizio dimostrò una predilezione per le storie di crimine e mistero. Il suo modello era il famoso scrittore di mysteries, Edgar Wallace ("Se riuscissi solo a diventare bravo la metà di Wallace" era solito ripetere il giovane Durbridge, che all'epoca era ben lungi anche soltanto dal sognare che un giorno ne sarebbe stato considerato un erede), e già nel 1933 poco più che ventenne scrisse e riuscì a far mandare in onda dalla BBC il suo primo radiodramma, "Persuasion". Il successo però non dovette essere immediato, se per poter firmare un secondo radiodramma, "Information Received", fu costretto ad attendere altri cinque anni. Ma proprio in quell'anno, il 1938, Durbridge fece il passo decisivo che gli avrebbe finalmente tributato il successo: con il suo terzo radiodramma, "Send for Paul Temple", creò la figura dello scrittore, criminologo ed investigatore per diletto, che l'avrebbe reso famoso. Per il trentennio successivo, Paul Temple, insieme alla moglie Steve, avrebbe formato una delle coppie più inossidabili del giallo all'inglese, protagonisti di oltre venti radiodrammi, la maggior parte dei quali trasformati poi in romanzi (con la collaborazione di altri scrittori che s'incaricavano di rendere letterariamente le storie radiofoniche di Durbridge), e anche di alcuni romanzi tout-court, scritti espressamente dallo stesso Durbridge. Apparso anche in alcuni film negli anni '40, e in una serie a fumetti negli anni '50, negli anni '70, poi, Temple venne ulteriormente trasposto in una serie tv, una coproduzione anglo-tedesca, interpretata da Francis Matthews e Ros Drinkwater, che gli diede notorietà in tutto il mondo (anche se nessuno degli episodi fu firmato da Durbridge, che concesse il suo nome solo come creatore della serie), divenendo così uno dei primi personaggi multimediali della storia del poliziesco. Ma la vera popolarità Durbridge la raggiunse con l'avvento della televisione. Dagli inizi degli anni '50 fino al 1975, produsse circa una ventina di copioni originali per la BBC che fecero il giro d'Europa, con un metodo singolare, visto con gli occhi di oggi: non venivano, cioè, esportati e doppiati nelle varie lingue gli sceneggiati inglesi, ma ogni paese che acquistava i diritti di riproduzione delle storie di Durbridge, ne realizzava una propria versione, nella lingua e con attori del posto. Insomma oggi diremmo che le varie televisioni nazionali si limitavano ad acquistare i format delle varie mini-serie per riprodurli poi con i propri mezzi, riadattandoli ai gusti del loro pubblico. Quindi esistono versioni tedesche, svedesi, francesi, polacche ed italiane di "Melissa", forse il più popolare giallo scritto da Durbridge, così come di tante altre sue storie per la tv. Nel nostro paese, il Durbridge televisivo arriva piuttosto in ritardo, nel 1963 con "La sciarpa", il suo decimo copione, ma il suo nome non era del tutto sconosciuto agli amanti del giallo, visto che la Rai aveva già prodotto fin dal 1953, diversi suoi radiodrammi a puntate, quasi tutti con protagonista Paul Temple, interpretato di volta in volta da vari attori della Compagnia di Prosa di Firenze, con buoni ascolti ed ottimo gradimento. Tuttavia, i vertici aziendali della tv di stato non erano probabilmente preparati a quello che avrebbe significato un giallo a puntate nelle serate televisive, piuttosto soporifere, dell'epoca. Fino ad allora infatti, nonostante il buon, se non ottimo, gradimento che le vicende poliziesche avevano sempre registrato, non avevano mai convinto i paludati e un po' ingessati dirigenti Rai ad andare oltre la trasmissione di qualche isolato film o telefilm americano ("Perry Mason" era la serie gialla più popolare di quei tempi, ma anche una delle poche). La cosa più vicina ad un serial che la Rai avesse prodotto era "Giallo Club", una specie di quiz in cui ai concorrenti, invece che domande musicali o di cultura varia, veniva proposto settimanalmente un enigma poliziesco, recitato nelle prime stagioni dal vivo da attori in studio, e successivamente registrato, a cui erano chiamati a dare una soluzione, prima che l'investigatore risolvesse il caso. (Per la cronaca, l'investigatore in questione era quel tenente Sheridan, interpretato da Ubaldo Lay, che negli anni a venire sarebbe diventato un pilastro, insieme al Maigret di Gino Cervi e al Nero Wolfe di Tino Buazzelli, del giallo televisivo della Rai.) Ma sia pur con questa formula mista di gioco e fiction, i mini sceneggiati, scritti da Casacci, Ciambricco e Rossi che, per poco meno di due anni, tra il novembre del 1959 e l'aprile del 1961, calamitarono ogni settimana milioni di spettatori per ventiquattro episodi divisi in quattro cicli, non riuscirono ad indurre i succitati dirigenti a porre maggior attenzione al genere poliziesco, convinti come erano forse della missione culturale a cui erano chiamati, e ritenendo il giallo un prodotto troppo effimero per spenderci tanto tempo e mezzi. Sempre con gli occhi di oggi, viene da sorridere al pensiero che una televisione moderna, dopo un successo come quello di "Giallo Club", avrebbe prodotto almeno duecento episodi e non meno di dieci stagioni! Sta di fatto, comunque, che il pubblico italiano dovette attendere altri due anni, perché al giallo fosse finalmente tributato uno spazio degno in prima serata, sul da poco nato Secondo Programma, e l'onore di aprire quella che si sarebbe poi rivelata negli anni una proficua carrellata di successi fu proprio dello sceneggiato di Durbridge che esordì sul Secondo Programma lunedì 11 Marzo 1963. Ecco grazie all'aiuto delle note illustrative, tratte dal Radiocorriere TV di quelle settimane (uniche testimonianze rimaste, vista l'irreperibilità del materiale video negli archivi Rai), un succinto richiamo della trama: il cadavere di una donna strangolata con una sciarpa di seta viene ritrovato nel terreno di una fattoria a Littleshaw, piccolo centro abitato a pochi chilometri da Londra. La vittima è una giovane attrice e fotomodella, Barbara Collins, legata sentimentalmente al ricco proprietario di una catena di riviste femminili e notorio playboy, Clifton Morris (Franco Volpi). Da subito, all'ispettore Jett (Aroldo Tieri), la posizione di Morris appare pesantemente compromessa, infatti, non solo la sciarpa usata come arma del delitto è simile a quelle comunemente usate dall'editore, ma a poca distanza dal luogo del delitto viene anche rinvenuto un accendisigari d'oro, di proprietà dell'uomo che afferma di averlo smarrito qualche giorno prima. Naturalmente, Morris non è il solo sospettato sulla lista della polizia. Insiema a lui, sia pur con indizi meno evidenti, ci sono anche il proprietario della fattoria in cui è stata ritrovata la giovane, Alistair Goodman (Roldano Lupi), la sua fidanzata ed amica della vittima, Marian Hastings (Liana Trouché), e diversi altri. Ma il destino sembra accanirsi particolarmente solo contro il povero Morris che procuratosi un alibi per la sera del delitto, una sua amica afferma di essere stata in sua compagnia, se lo vede sottrarre tragicamente quando anche quest'ultima viene ritrovata strangolata con un'identica sciarpa di seta, proprio nel suo appartamento. Starà all'ispettore Jett dipanare l'insidiosa ragnatela d'indizi che qualcuno sembra aver teso intorno allo sfortunato playboy. Diretto da Guglielmo Morandi, tradotto da Franca Cancogni, che qui fa il suo esordio come adattatrice italiana dei copioni all-british di Durbridge (di cui poi avrà quasi l'esclusiva anche per la radio), e con uno stuolo di giovani e meno giovani attori teatrali e televisivi, tra cui ricordiamo, oltre ai già citati, Ivano Staccioli, Ugo Pagliai, Nando Gazzolo e Francesco Mulè, "La sciarpa" fu realizzato quasi completamente in studio, dove furono anche ricostruiti ambienti e strade della cittadina inglese in cui si svolge la vicenda, e spostando la troupe per i pochi esterni nei pressi di una tenuta, situata sulla Cassia, che ricordava molto le classiche strutture edilizie britanniche. Evidentemente, ancora i produttori Rai erano lontani dall'autorizzare costose trasferte nelle località estere originali dove erano ambientate le storie di Durbridge, cosa che avverrà in seguito sull'onda del successo delle vicende gialle escogitate dal maestro inglese, e sicuramente un "esperimento", come poteva a tutti gli effetti essere considerato questo, non incentivava allo sperpero delle risorse. Inoltre, la programmazione venne effettuata con una formula "bi-settimanale", piuttosto insolita per l'epoca, per uno sceneggiato, andando in onda ogni lunedì e mercoledì, dopo le 21, per sei puntate. Ulteriore prova di una cautela anche eccessiva da parte dei vertici Rai nell'affrontare questo nuovo modo di proporre una storia poliziesca: in caso d'insuccesso, evidentemente, si pensava a limitare i danni riducendo il numero delle settimane. Ma ogni timore che ci fosse stato si rivelò privo di fondamento. Anche se non raggiunse il record della Germania, dove un paio di anni prima racconta la leggenda nelle ore in cui veniva trasmessa "Das Halstuch" ( "La sciarpa" in versione tedesca) gli operai e gli impiegati si assentavano dalle fabbriche e dagli uffici per seguirla, al punto da spingere le varie dirigenze a modificare gli orari di lavoro per non interrompere la produzione, anche nella sua versione italiana, "La sciarpa" ebbe ascolti notevolissimi, quasi sei milioni di spettatori (un risultato di grande rilievo, se si pensa che, ad esempio, il lunedì la concorrenza era rappresentata dai seguitissimi appuntamenti con il cinema dei grandi attori di Hollywood sul Programma Nazionale, e il Secondo Programma era un optional per moltissime famiglie che avevano ancora vecchi televisori che non lo ricevevano), e anche l'indice di gradimento raggiunse punte dell'ottanta per cento. Ma il giallo a puntate di Durbridge conquistò un altro importante risultato: insieme allo sport e alla politica divenne argomento di conversazione tra la gente nei bar, nei negozi, o dal parrucchiere. La "caccia al colpevole" ancora una volta elettrizzò il pubblico, come ai tempi di "Giallo Club", con la grossa differenza però che questa volta l'enigma non si risolveva nel giro di una sola sera, e poteva essere discusso e commentato per giorni, mentre le ipotesi sull'identità dell'assassino da parte della gente si accavallavano. Alcuni quotidiani colsero questo interesse e il mattino dopo ogni nuova puntata pubblicavano articoli che riassumevano la vicenda fino a quel momento ed enumeravano i vari sospettati come se si fosse trattato di un autentico caso criminale. La sera dell'ultima puntata, poi, si notò che al cinema e nei locali pubblici in genere che non disponevano di una saletta tv, l'afflusso nell'ora in cui andava in onda la trasmissione aveva subito cali rilevanti. Insomma, la Rai aveva trovato un filone d'oro e da quel momento ne avrebbe attinto a piene mani per molti anni a venire.
2) "Paura per Janet" (1963) Se la Rai poteva avere dimostrato cautele eccessive nella preparazione e nella programmazione de "La sciarpa", dobbiamo almeno riconoscere ai dirigenti dell'epoca di aver capito velocemente l'errore di valutazione fatto. L'eco del successo di quel primo sceneggiato giallo non si era ancora spenta che già l'emittente di stato ne metteva in cantiere un secondo ancora tratto da uno script televisivo di Durbridge, mentre quasi contemporaneamente veniva prodotta, dopo due anni di silenzio dalla fine di "Giallo Club", una nuova serie di telefilm con protagonista il tenente Sheridan, ma stavolta senza gioco a quiz abbinato, "Ritorna il tenente Sheridan", sei episodi autoconclusivi mandati in onda addirittura sul Programma Nazionale e di domenica in prima serata, l'orario canonico dei grandi sceneggiati, ad ulteriore testimonianza di un nuovo rispetto ed interesse da parte della dirigenza nei confronti del giallo. Il nuovo sceneggiato di Durbridge, che in quell'estate del 1963 ancora non aveva un titolo italiano, s'intitolava nella sua versione originale, trasmessa dalla BBC nel 1957, "A Time of Day", e conteneva nella trama un elemento che avrebbe sicuramente acuito l'attenzione e alzato i livelli d'ansia del pubblico ben al di là della classica "caccia al colpevole", e cioè il rapimento di una bambina. Nuovamente dobbiamo ricorrere alle insostituibili informazioni del Radiocorriere TV per ricostruire sia pur per sommi capi una storia di cui negli archivi Rai sembra non esserci più traccia: Janet Freeman, la figlia decenne di Clive Freeman, scienziato ricco e famoso, sparisce inspiegabilmente un giorno da scuola. Il rapimento appare subito piuttosto singolare. Infatti per molti giorni nessuno si fa vivo per chiedere un riscatto, gettando nell'angoscia il padre e la madre, Lucy, che non riescono a spiegarsene le ragioni. In realtà, la famiglia Freeman era tutt'altro che una famiglia felice anche prima della sparizione di Janet. I due coniugi, infatti, erano ormai ad un passo da un furioso divorzio, e tra le ipotesi sul movente, la polizia, nella persona dell'ispettore Kenton, non esclude possa esserci l'interesse di uno dei due genitori a sottrarre all'altro la custodia della bimba. Resterebbe da capire eventualmente chi dei due, anche se le maggiori attenzioni si appunterebbero su Clive, il padre, che andava spesso a prendere la piccola a scuola e che possiede una macchina dello stesso modello di quella con cui sarebbe stata vista allontanarsi Janet all'uscita. Tuttavia anche altri possibili moventi sono considerati con attenzione dalla polizia. Freeman infatti aveva allo studio nei suoi laboratori importanti scoperte, e in tal caso Janet avrebbe potuto essere stata rapita da un'organizzazione di spie interessata a ricattarlo per acquisire segreti da poter rivendere a delle potenze straniere (siamo ancora in tempi di piena guerra fredda). Nel suo evolversi, come ogni buon giallo che si rispetti, la vicenda si arricchirà di un paio di cadaveri che renderanno ancora più assillante la nuova domanda che il pubblico italiano si sarebbe ripetuto sintonizzandosi sul Secondo Programma ogni lunedì e giovedì alle 21,15, dal 2 Dicembre, fino al suo scioglimento tre settimane dopo, il 18 Dicembre 1963, un mercoledì però, vedremo poi perché, ad un passo dal Natale: "Chi ha rapito Janet, e che ne sarà stato di lei?" "Paura per Janet", il titolo che la produzione italiana aveva scelto alla fine per lo sceneggiato, si adattava quindi molto bene anche allo stato d'animo dei telespettatori del bel paese, sempre pronti a commuoversi per la sorte di un bambino, e la scelta della piccola attrice che avrebbe interpretato il ruolo della bimba scomparsa venne attentamente effettuata dal regista Daniele D'Anza e dai suoi collaboratori, che indirono addirittura un concorso in tutta Italia per cercare il volto adatto per Janet. Tra le migliaia di candidate venne scelta infine la piccola Silvana Valci, che con i suoi capelli rossi e le sue efelidi, ben si adattava al ruolo di una bimbetta inglese. Intorno a lei, facevano corona Aroldo Tieri, di ritorno dopo "La sciarpa" nel ruolo del padre Clive Freeman, Valentina Fortunato, in quello della madre Lucy Freeman, Massimo Girotti, l'avvocato e amico di famiglia Lawrence Howard, e Ernesto Calindri che con i suoi baffetti e quell'aria serafica very british, era un perfetto ispettore Kenton, con tanto di bombetta. Lo sceneggiato venne girato come il precedente in buona parte a Roma in studio, dove vennero ricostruiti molti scorci di strade di Londra, oltre agli interni di casa Freeman, ma per la prima volta furono autorizzati anche brevi trasferte in Inghilterra per riprendere alcuni luoghi tipici della capitale britannica, come Piccadilly Circus o la Victoria Station, per dare un sapore ancora più realistico alla vicenda. Inoltre, ormai consci dell'importanza di mantenere il segreto assoluto sulla conclusione del giallo e sull'identità del colpevole, solo il regista e i suoi più stretti collaboratori, in primis Franca Cancogni, che aveva tradotto ed adattato anche il nuovo Durbridge, erano al corrente del contenuto delle ultime pagine del copione, mentre gli stessi protagonisti furono tenuti all'oscuro fino all'ultima puntata. Vuole la leggenda che quelle mitiche pagine finali dei tre unici copioni che contenevano l'identità del colpevole, fossero state distrutte in presenza di D'Anza perché non potessero finire in mani sbagllate. Tutte queste precauzioni che potrebbero apparire esagerate, e anche un po' ridicole, avevano una loro precisa ragione d'essere: come ho già detto, molti quotidiani e riviste di spettacolo, già con "La sciarpa", avevano intuito le potenzialità d'interesse che articoli riguardanti il nascente genere del giallo televisivo a puntate, e la conseguente ridda di ipotesi su "come sarebbe andata a finire", sapevano sollevare nei lettori, e quindi editori e redattori lanciavano i loro reporter alla caccia d'indizi d'ogni genere sui set dove si girava un nuovo giallo nella speranza di godere di ghiotte anticipazioni da gettare in pasto al proprio pubblico. Pensate cosa avrebbe potuto significare entrare in possesso delle pagine finali di un copione. Una fortuna per il giornale che ci fosse riuscito, ma una rovina per la produzione che si sarebbe vista "bruciare" il colpo di scena più atteso dagli spettatori, rischiando di minare fortemente il livello degli ascolti. La questione causava paranoie notevoli ai dirigenti Rai che poco meno di due anni dopo avrebbero avuto modo di toccare con mano cosa voleva dire esattamente, quando per un errore di tempistica, il romanzo di Casacci e Ciambricco "La donna di fiori", tratto dall'omonimo sceneggiato giallo con il tenente Sheridan, che stava andando in onda proprio in quei giorni, uscì in edicola non la settimana dopo la trasmissione dell'ultima puntata, come previsto dagli accordi, ma la settimana prima! Il risultato fu che le edicole vennero prese d'assalto dai lettori che non vedevano l'ora di sapere chi fosse l'assassino, e la produzione perse una buona percentuale di ascolti proprio nella puntata conclusiva. Inutilmente la Rai cercò di rivalersi legalmente sulla casa editrice del libro, nel tentativo di dimostrare che l'errore era stato in realtà voluto. E l'ipotesi era tutt'altro che assurda, dato che ci voleva poco a capire che pubblicare la soluzione del giallo con una settimana d'anticipo avrebbe significato decuplicare le vendite. Purtroppo però non fu possibile dimostrare il dolo e la tv di stato si ritrovò nel classico ruolo del "becco e bastonato". C'è da stupirsi che, con il passare degli anni, i metodi "anti-spionaggio" si facessero sempre più sofisticati? E tuttavia, come vedremo, non sempre sarebbe stato sufficiente, costringendo registi e scrittori ad incredibili equilibrismi per impedire la fuga di notizie. Ma non precorriamo i tempi, e torniamo a quel dicembre 1963 ed a "Paura per Janet". Nonostante il rilievo dato sulla stampa al giallo, certamente non inferiore a quello ricevuto dal suo predecessore, ci fu una notevole differenza nei dati sull'accoglienza del pubblico rispetto a "La sciarpa". Mentre infatti, l'indice di gradimento si mantenne stabile, guadagnando anzi un paio di punti, 82 contro 80, gli ascolti registrarono un calo piuttosto ragguardevole: circa due milioni di spettatori in meno, che rientravano sì nella media della rete cadetta, ma che risultavano tuttavia inspiegabili sulla scorta di quelli che erano stati invece i risultati ottenuti il Marzo precedente con l'altro sceneggiato dello stesso autore, sullo stesso canale e alla stessa ora. Probabilmente, "Paura per Janet" pagò l'infelice collocazione del giovedì, quando a fargli concorrenza sul Programma Nazionale, c'era "Gran Premio", quello che oggi chiameremmo un talent-show, incentrato su un torneo regionale che aveva come protagonisti cantanti, attori, fantasisti dilettanti di ogni genere, e provenienti da tutte le regioni italiane che divisi in squadre si affrontavano ogni settimana nelle loro rispettive specialità, spalleggiati di volta in volta da famosi personaggi dello spettacolo che erano originari ciascuno di quella o di quell'altra regione e che facevano loro da padrini o madrine. Il varietà, presentato dal popolarissimo Carlo Campanini, indimenticabile spalla comica di grandi attori come Totò o Walter Chiari, era per di più abbinato alla Lotteria di Capodanno. Quanto di più nazional-popolare si potesse pensare per monopolizzare l'attenzione dello spettatore di casa nostra. Quando il giallo di Durbridge iniziò, "Gran Premio" era già in onda da settimane e si era costruito un suo pubblico numerosissimo e fedelissimo che certamente non avrebbe rinunciato a seguire e sostenere i beniamini della propria regione, specialmente nella speranza di vincere i ricchi premi che erano loro abbinati, per seguire le indagini di Calindri, e quindi questo finì per ripercuotersi negativamente sugli ascolti dello sceneggiato. All'epoca, poi, le rilevazioni di quello che si chiamava il "Servizio Opinioni", e che serviva appunto a percentualizzare il numero di spettatori ed il gradimento di ogni programma televisivo e radiofonico, arrivavano con molta più lentezza, e quindi i dirigenti Rai si resero conto solo con molto ritardo della situazione, correndo ai ripari solo all'ultima puntata che fu anticipata così al mercoledì, ma troppo tardi per risollevare in maniera evidente i dati di ascolto. Tuttavia questa parziale debacle, non era certo da imputare alla storia di Durbridge, che aveva comunque ottenuto, come abbiamo visto, un altissimo indice di gradimento tra chi aveva seguito la vicenda, e oramai il giallo a puntate era comunque un genere "sicuro" su cui la Rai era disposta a puntare. Di lì a poco infatti, sarebbe partita la realizzazione delle prime storie di Georges Simenon con protagonista il commissario Maigret, interpretato dal grandissimo Gino Cervi, e si cominciava a pensare che anche il popolarissimo Sheridan di Ubaldo Lay, che aveva confermato con la recente nuova serie il suo successo presso il pubblico televisivo, fosse maturo per affrontare un caso poliziesco ad ampio respiro. Ma i tempi della Rai di quegli anni, priva di concorrenza e non costretta come quella degli ultimi decenni ad inseguire mode e tendenze, erano lunghi, e quest'ultimo evento, come abbiamo già visto, non si verificherà che due anni dopo, nel 1965. Mentre per assistere al ritorno di Francis Durbridge con un nuovo giallo ci vorrà ancora più tempo, quasi tre anni, ma quando avverrà sarà valso la lunga attesa.
3) "Melissa" (1966) Erano trascorsi quasi tre anni da "Paura per Janet", ma non erano trascorsi invano. Nel frattempo, la Rai aveva prodotto e trasmesso due serie de "Le inchieste del commissario Maigret" con Gino Cervi (otto sceneggiati di varia durata per un totale di diciotto puntate), "La donna di fiori", prima indagine "lunga" (sei puntate) per il tenente Sheridan di Ubaldo Lay, e altri due cicli di una serie giallo-rosa con Lauretta Masiero e Aldo Giuffre', "Le avventure di Laura Storm", e tutte con grandissimo successo. Volendo, potremmo anche inserire l'incubo di tutti i bambini, in quell'estate del '66, che come me tremavano nascondendosi dietro le lenzuola, ma non rinunciavano a seguire le tenebrose imprese del sinistro "Belfagor, il fantasma del Louvre", il cui successo fu tale da costringere la Rai a trasferirlo per le ultime due puntate dal Secondo Programma (che ormai sembrava il canale deputato ai gialli) al Programma Nazionale, ma in realtà si trattava di una produzione francese. Tuttavia anche questa era un'ulteriore prova di quanta importanza il genere poliziesco avesse acquisito nei palinsesti della tv di stato. Ormai era ora di rispolverare anche il "vecchio" Durbridge, e per farlo fu scelto uno dei suoi più recenti copioni. "Melissa" era andato in onda sulla BBC solo due anni prima con enorme successo, come del resto tutti gli sceneggiati firmati Durbridge in patria, ed era stato subito acquistato da diverse tv di varie nazioni europee (Francia e Germania tra le altre) che ne avevano messo in cantiere ognuna una propria versione, ed ai dirigenti Rai apparve subito come la scelta più idonea. Ed in effetti, lo script possedeva un po' tutti gli elementi tipici del miglior Durbridge. Per la prima volta, non abbiamo bisogno di ricorrere alle schede del Radiocorriere TV, perché per fortuna, di "Melissa", così come di tutti gli altri sceneggiati di Durbridge degli anni a seguire sono rimasti i nastri, e grazie ai DVD, tutti possono oggi rivederseli quando e quanto vogliono. Non rinunceremo tuttavia al solito breve riassunto della trama. Guy Foster, ex-giornalista che ha lasciato la professione per coltivare le sue velleità di scrittore, non se la cava molto bene economicamente, e la questione è causa di frequenti dissapori con sua moglie Melissa; eppure Melissa, all'insaputa di suo marito, vive bene al di sopra dei mezzi modesti della coppia. Guy lo scopre nel peggiore dei modi, quando il cadavere strangolato di lei viene ritrovato nel Regent's Park di Londra. La donna si era recata in compagnia di due amici, Felix e Paula Hepburn, ad un ricevimento del campione automobilistico Don Page. Rimasto a casa da solo a scrivere, Guy aveva ricevuto una chiamata di Melissa che lo invitava ad unirsi alla festa dove avrebbe incontrato un importante editore. Poco entusiasta, Guy si era comunque recato all'indirizzo datogli dalla moglie, solo per scoprire che quell'indirizzo non esisteva e che Melissa era stata ritrovata uccisa nel parco. Da lì, l'uomo comincia a scoprire tante cose che non avrebbe immaginato: Melissa era in possesso di cospicue somme di denaro, gioielli ed altri valori, di cui lui non aveva mai sospettato l'esistenza, che a quanto pare vinceva al gioco. L'ispettore Cameron di Scotland Yard, che conduce le indagini, scopre i pessimi rapporti che intercorrevano tra la coppia, e viene a sapere addirittura che Melissa, preoccupata della salute mentale del marito, l'avrebbe convinto a consultare uno psichiatra, il dottor Norman Swanson, per i suoi scatti di rabbia. Guy nega assolutamente di aver mai consultato Swanson, ma resta di sasso, quando questi invece lo smentisce affermando di averlo ricevuto e visitato nel suo studio. La circostanza è confermata anche dall'infermiera dello psichiatra, Joyce Dean. Ormai la polizia lo sospetta, e Guy sembra incapace di sottrarsi alla rete di menzogne che lo circonda. Ma sono davvero menzogne? Perfino i suoi più cari amici cominciano a dubitare di lui. Una cappelliera che compare e scompare, un nome su una lettera di Melissa che solo lui sembra avere letto, ed un uomo che misteriosamente cambia volto, sono altri elementi di questo ingegnoso puzzle che sconcertò anche il pubblico italiano per sei settimane, spingendolo a chiedersi se Rossano Brazzi, gloria nazionale ma anche stella del cinema internazionale, che interpretava il protagonista Guy Foster, fosse solo un innocente, incastrato da una serie incredibile di circostanze avverse, o non fosse davvero un pazzo omicida dalla doppia personalità. Diretto ancora da Daniele D'Anza, di ritorno dopo "Paura per Janet", "Melissa" fu visto da quasi dieci milioni di spettatori (9.900.000, per la precisione, quasi tre milioni più de "La sciarpa", e sei più di "Paura per Janet"!) con un gradimento confermato all'82%. Accanto a Brazzi, al suo esordio come attore televisivo, c'erano Esmeralda Ruspoli, nobildonna di antica casata datasi alla professione di attrice, nel ruolo della defunta ma sempre presente Melissa, Aroldo Tieri, che ormai sembrava essere diventato una specie di portafortuna per i gialli di Durbridge, e Laura Adani, in quelli di Felix Hepburn e di sua moglie Paula, Massimo Serato come il pilota di Formula Uno Don Page, Franco Volpi, altro ritorno del giallo "durbridgiano", come il dottor Swanson, la giovane Luisella Boni come la bella e ambigua infermiera Joyce Dean, e Turi Ferro nei panni dell'imperturbabile ispettore Cameron. In quella metà degli anni '60, l'Italia era in pieno boom economico. Gli apparecchi televisivi, e di conseguenza gli abbonamenti erano cresciuti esponenzialmente ed a quel punto erano davvero poche le famiglie che per seguire i programmi tv dovevano ancora trasferirsi in casa di parenti o amici. Con la sua esperienza ormai più che decennale, la Rai era uscita dall'infanzia e si apprestava a diventare una delle emittenti europee più ricche, per cui non si badava più a spese specialmente per le fiction (anche se allora si parlava ancora di teleromanzi, sceneggiati o originali televisivi), e "Melissa" sicuramente si giovò di questo. I giorni di trasferta sul suolo britannico per girarvi gli esterni, in particolare a Londra, aumentarono, e la sigla iniziale, una delle più ricordate di uno sceneggiato di Durbridge, fu girata interamente lungo le strade della capitale inglese, con la telecamera che inquadrava frontalmente un'auto della polizia che correva a sirene spiegate, mentre la musica di Fiorenzo Carpi con i suoi fiati dal ritmo jazzistico faceva da accompagnamento, e sulle immagini scorrevano i titoli d'apertura. Ma non meno ricordata è senz'altro anche la sigla di chiusura, "Regent's Park" sempre scritta da Carpi con D'Anza ed eseguita vocalmente da Connie Francis, popolarissima cantante italo-americana dell'epoca, che con le sue immagini misteriose e suggestive ed i suoi toni un po' malinconici, alludeva alla figura di Melissa che avvolta in una pelliccia (pelliccia che nella trama assumerà grande rilievo), si avviava verso il suo destino. Lo sceneggiato andò in onda, ancora in sei puntate e sempre sul Secondo Programma, ma stavolta con una sola puntata a settimana, collocata il mercoledì, dal 23 Novembre al 28 Dicembre 1966, all'ora canonica delle 21,15. Evidentemente s'intendeva centellinare la suspence per gli spettatori che avrebbero dovuto attendere un'intera settimana di ansie e congetture per poter tornare a seguire un nuovo capitolo della vicenda, e poter alla fine avere una risposta alla nuova domanda che percorreva lo stivale: "Chi ha ucciso Melissa Foster?". Ed è ovvio che ormai la "caccia al colpevole" era divenuta uno sport nazionale: non solo giornali e riviste pubblicavano articoli, interviste agli interpreti (anche se la consegna al silenzio era rigidissima), ma addirittura un rotocalco bandì un vero e proprio concorso con tanto di ricchi premi per chi avesse indovinato il nome dell'assassino. Nome che, altrettanto ovviamente, era protetto con estrema cura dai pochissimi che lo conoscevano. Il regista D'Anza, addirittura questa volta, girò molte differenti versioni della stessa scena, e ad ogni nuova versione, appariva un diverso autore per il delitto. Le molte versioni di questa scena andarono poi regolarmente in onda nell'ultima puntata del giallo (per la serie, come con il maiale non si butta via nulla), nella lunga sequenza in cui l'ispettore Cameron ipotizza come le cose possono essere andate secondo lui, acuendo la curiosità del pubblico in attesa di scoprire quale delle varie possibili ipotesi si sarebbe rivelata quella vera. Questo espediente servì non solo a confondere le idee a giornalisti ed investigatori dilettanti, ma anche agli stessi attori che poterono sperare fino all'ultimo di essere ognuno di loro il colpevole. Sì, perché essere "l'assassino" in un popolarissimo giallo a puntate era divenuta l'aspirazione di molti attori, soprattutto tra quelli ancora in cerca di una vera notorietà. Per almeno un mese sarebbero stati protagonisti di interviste da parte di giornali e riviste di tutta Italia e della stessa tv, riscuotendo una popolarità che avrebbe potuto significare nuove possibilità di scritture e prospettive inimmaginabili, per cui si può capire facilmente quanto quel ruolo fosse ambito. L'ultima puntata del giallo, poi, fu un tale evento televisivo che il giorno dopo, il telegiornale del Programma Nazionale gli dedicò un intero servizio. Una cosa all'epoca più unica che rara. Alla durata ed al prolungamento delle emozioni per lo spettatore italiano, contribuivano poi anche le traduzioni dell'esperta Franca Cancogni, sorella del giornalista e scrittore Manlio Cancogni, sceneggiatrice e scrittrice essa stessa, che riusciva, in collaborazione spesso con il regista di turno (o, come capiterà in futuro, con altri scrittori) ad ampliare i tempi della storia, aggiungendo scene o approfondimenti psicologici dei personaggi, che meglio si adattavano al gusto dello spettatore di casa nostra, o degli stessi attori che potevano esprimersi più compiutamente di quanto potessero fare i loro colleghi inglesi, con i più sintetici copioni di Durbridge. Infatti, mentre le versioni inglesi, che fossero divise come in un primo tempo in sei o successivamente in tre puntate, non superavano mai in pratica le tre ore totali di trasmissione, quelle italiane, con puntate che potevano variare di durata in media dai 55 minuti all'ora e un quarto, potevano sfondare spesso il tetto delle sei o anche sette ore. Un esempio pratico di questo posso testimoniarlo personalmente, avendo avuto la possibilità di vedere in DVD il remake a colori di "Melissa", prodotto in tre parti dalla BBC nel 1974. La trama è identica a quella dell'edizione italiana, ma i tempi sono molto più veloci (ogni puntata di un'ora ne contiene due delle nostre), e le interpretazioni più contenute, ed oserei quasi dire più "fredde", di quelle a cui siamo abituati noi. Non c'è traccia, ad esempio, della sofferenza che Rossano Brazzi riusciva a comunicarci per la scomparsa di sua moglie. All'attore che interpretava il ruolo di Guy Foster in questo remake inglese, un non meglio identificato Peter Backworth, avrebbero potuto aver ammazzato il gatto per il grado di emozione che riesce a manifestare. E inutilmente cerchereste tracce dell'umana simpatia del "nostro" ispettore Cameron, il grande Turi Ferro, nel rigido e segaligno funzionario di polizia, suo equivalente, che indaga sul delitto. Intendiamoci, i meccanismi di Durbridge funzionano sempre alla grande, ma le versioni Rai riuscivano ad infondere un'anima alle sue storie, che gli spettatori d'oltremanica non si sognano, e forse non sarebbero neanche in grado di apprezzare. Tuttavia, anche e soprattutto in Inghilterra, "Melissa" resta comunque la serie più popolare scritta da Durbridge, visto che è l'unica ad aver goduto di ben tre versioni: quella originale del 1964, il già citato e fedele remake del 1974, ed un'ulteriore nuova edizione nel 1997 (mai vista a quanto mi consta fuori dall'Inghilterra, ma pare pesantemente rimaneggiata), un anno prima della morte di Durbridge.
4) "Giocando a golf, una mattina" (1969) Pare che in quel finale d'anno 1966, mentre l'Italia televisiva tutta s'interrogava ancora su chi avesse ucciso Melissa Foster, un cronista particolarmente intraprendente avesse avuto la trovata geniale di telefonare ad un suo collega inglese (in Inghilterra "Melissa" nella sua versione originale era già andato in onda due anni prima) per farsi rivelare il nome dell'assassino. Se l'espediente funzionò o meno non è dato sapere perché in realtà nessun giornale pubblicò anzitempo quel nome, e la notizia di questa fantomatica telefonata internazionale trapelò solo molto tempo dopo la fine dello sceneggiato. Quindi direi che è più che probabile che si tratti solo di una specie di leggenda metropolitana, diciamo così, di quelle che amano inventarsi le redazioni per insaporire un articolo, ma, leggenda o no, evidentemente la faccenda dovette allarmare abbastanza i dirigenti Rai e Daniele D'Anza che per il successivo giallo di Durbridge pensarono ad un sistema tutto nuovo per confondere le acque. Ma procediamo con ordine. Dopo l'enorme successo popolare e mediatico di "Melissa", la Rai si sentiva ulteriormente incentivata, se ce ne fosse stato ancora bisogno, ad incrementare il numero di trasmissioni a sfondo poliziesco delle sue due reti. Tra l'inizio del '67 e il settembre del '69, quando il nuovo Durbridge esordì in pompa magna di domenica alle 21,05 sul Programma Nazionale (novità assoluta per il nostro autore!), ormai i gialli non si contavano più. Cito solo i titoli più importanti di quel periodo: oltre ai soliti Sheridan, tornato non solo con una nuova donna del suo poker in formazione, "La donna di quadri", in cinque puntate, ma anche con una nuova serie di cinque episodi autoconclusivi, quasi dei tv movies, riuniti sotto il titolo di "Squadra Omicidi, Tenente Sheridan", e Maigret con un terzo ciclo di storie (altri cinque sceneggiati per un totale di undici episodi), arrivarono ad unirsi alla schiera degli investigatori reinventati dalla nostra televisione, anche Nero Wolfe ed il suo assistente Archie Goodwin, dai romanzi di Rex Stout, al secolo Tino Buazzelli e Paolo Ferrari (sei storie divise ognuna in due parti), ed il re di tutti gli investigatori, il grande Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle, interpretato alla perfezione da Nando Gazzolo, affiancato da un altrettanto perfetto Gianni Bonagura nella parte dell'inseparabile Watson (due classici, "La valle della paura" e "L'ultimo dei Baskervilles" in tre puntate ciascuno). Tra i prodotti un po' più sui generis, ma da non trascurare, ricorderei anche "Geminus", un singolare giallo quasi in chiave di commedia con un insolito Walter Chiari, e la prima serie de "I ragazzi di Padre Tobia", telefilm per ragazzi dal sapore solo vagamente poliziesco, ma degno di apparire in questa breve lista, se non altro per la firma degli autori, quei Casacci e Ciambricco, già padri del tenente Sheridan. Per quel che riguardava invece Durbridge, anche se niente di suo era più stato prodotto da quasi tre anni per la televisione, la pausa non era stata tanto lunga in realtà per quei suoi appassionati che fossero stati attenti fruitori anche della radio, visto che a cavallo della primavera-estate 1967 era andata in onda una nuova avventura di Paul Temple, "Margò" in dieci puntate, trasmesse nell'arco di due settimane dal lunedì al venerdì, alle 10 del mattino sulle frequenze del Secondo Programma radiofonico. Con la regia di Guglielmo Morandi (che era stato anche il regista del primo sceneggiato tv di Durbridge "La sciarpa"), e la traduzione e adattamento dell'immancabile Franca Cancogni, il radiodramma vedeva nella parte dello scrittore detective per la prima volta un interprete di fama, contrariamente alla volte precedenti in cui ci si era serviti di attori delle varie compagnie locali di prosa della Rai, e cioè Aroldo Tieri, per la quarta volta consecutiva impegnato in un giallo di Durbridge, un record che stava per ulteriormente incrementare, come vedremo. Insieme a lui, ad arricchire il cast per la maggior parte composto dalla Compagnia di Prosa di Firenze della Rai, furono chiamati Giuliana Lojodice, Corrado Gaipa e Cesare Polacco, l'indimenticabile ispettore Rock dei caroselli della brillantina Linetti (ricordate? "Anch'io ho commesso un errore..."). L'anno dopo, poi, ancora il Secondo Programma della radio, aveva trasmesso "La Boutique", radiodramma giallo che Durbridge aveva scritto su richiesta dell'European Broadcasting Union, il consorzio delle emittenti radiofoniche europee, per il mercato continentale ed il Commonwealth, e che andò in onda quasi in contemporanea in quindici paesi, tra i quali appunto il nostro. La versione italiana, diretta da Umberto Benedetto, e trasmessa nell'autunno del 1968 in cinque puntate il venerdi alle 20, vedeva tra i protagonisti Andrea Checchi, Arnoldo Foà e Ilaria Occhini, ancora coadiuvati dalla Compagnia di Prosa di Firenze. Eccezionalmente la traduzione non venne curata dalla Cancogni, ma da Amleto Micozzi, ma questo resterà un caso unico. Come si vede, insomma, nonostante la pausa televisiva, la Rai non aveva certo dimenticato lo scrittore inglese, e finalmente nell'estate del 1969 giunse notizia di un nuovo giallo di Durbridge in lavorazione per la tv, il terzo consecutivo diretto da D'Anza che si stava specializzando nel genere (e che negli anni successivi avrebbe firmato altri grandi successi come "Coralba", "Il segno del Comando", "Ho incontrato un'ombra", "L'ultimo aereo per Venezia", tutti in chiave mystery ma non più all'ombra dello scrittore inglese). Ancora una volta si trattava di un'opera abbastanza recente (1966) il cui titolo piuttosto banale, "A Game of Murder", si trasformò in italiano nel più suggestivo "Giocando a golf, una mattina". Franca Cancogni fu di nuovo affiancata dal regista come era già accaduto con "Melissa" ed insieme i due tirarono fuori dallo script originale un'ottima sceneggiatura che, come la precedente, arricchiva senza tradirli il testo e i personaggi di Durbridge di sfumature dal sapore decisamente più nostrano. Inoltre, pur non rinunciando al solito sistema delle soluzioni alternative per proteggere anche sul set l'identità del colpevole (questa volta ne furono girate tre), D'Anza, come accennavo prima, escogitò un ulteriore trucchetto per confondere ancora di più le acque e scoraggiare chi avesse voluto eventualmente cercare di emulare la presunta impresa di quel cronista di cui sopra, che esistesse davvero o no. Tutti i nomi dei personaggi della storia vennero cambiati per renderli meno identificabili. Si mutarono anche alcuni rapporti di parentela (nell'originale, la prima vittima era il padre e non il fratello dell'investigatore) e così via, nell'intento di rendere la vita difficile il più possibile ad eventuali guastafeste. Quindi se vi è magari capitato di leggere il libro omonimo tratto dallo sceneggiato, e pubblicato anni dopo anche in Italia, ora sapete perché nessuno dei personaggi della storia avesse un nome corrispondente a quelli che ricordavate. Tuttavia, come dicevo, la trama, pur allungata e rimpinguata di dialoghi e scene fino a riempire le sei puntate di circa un'ora l'una come richiesto dalla dirigenza Rai, rispettava pedissequamente l'intrigo ordito da Durbridge: trasferito a Londra da Birmingham, l'ispettore Jack Kirby, in attesa di prendere servizio a Scotland Yard pensa di godersi un paio di settimane di ferie presso il fratello Bob, ex-asso del golf e attualmente proprietario di un negozio di articoli sportivi, ma l'atmosfera che vi trova è tesa, e Bob sembra depresso e intenzionato a cedere l'attività. Jack fa appena a tempo ad incontrarlo sul campo da golf, che Bob resta vittima di un incredibile incidente di gioco. Colpito alla testa da una pallina, cade su un sasso restando ucciso sul colpo. Responsabile è un certo Tony Stewart, che appare prostrato dalla disgrazia. Jack non crede all'incidente e sospetta che suo fratello sia stato ucciso di proposito, ma nessuno gli dà ascolto, a partire dal suo diretto superiore, il sovrintendente Bromford, e dal suo collega ed amico, l'ispettore Ed Royce. Jack contro il loro parere persegue pervicacemente la pista del delitto e i suoi sospetti sembrano trovare conferma quando scopre il numero della targa dell'auto di Stewart annotato da Bob su una cartella nel suo ufficio. Contattato, Stewart nega di aver mai conosciuto Bob se non di vista, ma accetta di incontrare Jack, salvo poi non presentarsi, mandando la sua ragazza, Kay Richardson, al suo posto, per dargli un nuovo appuntamento. E stavolta Stewart c'è, ma morto con una pallottola nella testa. Ma a quanto pare prima di morire, Stewart ha inviato a Kirby una raccomandata, come scoprono Royce e Bromford, da una ricevuta rinvenuta a casa sua. Nel bel mezzo di questi tragici eventi, si dipana una vicenda che sembrerebbe minore ed assolutamente estranea. La signora Mason, governante del fratello, ha smarrito da giorni il suo cagnolino. A ritrovarlo insperatamente, abbandonato e senza collare, è una strana coppia di coniugi, David Scott, un anziano gentiluomo bloccato su una sedia a rotelle, e la sua giovane moglie Mabel, e a Jack che è passato a riprenderselo, Scott chiede di devolvere la ricompensa ad un comitato di beneficenza e girarlo in favore del segretario, un certo Basil Haigs. Immaginatevi la sorpresa di Jack quando nell'appartamento di Stewart la polizia scoprirà proprio l'assegno da lui firmato in favore del signor Haigs! Il giorno dopo, intanto, la raccomandata arriva, e contiene due oggetti, un collare da cani, e un biglietto con su scritto, "Per questo tuo fratello è stato ucciso." Questa è praticamente la trama della prima puntata, e fermiamoci pure qui, dato che lo sceneggiato può essere facilmente recuperato in DVD e sarebbe un peccato rivelare troppi dettagli, rischiando di rovinare il divertimento a chi ancora non lo avesse visto, ma credo che basti a far capire che siamo in pieno Durbridge, con le sue consuete e intriganti coincidenze, che naturalmente non si riveleranno mai come tali, e i suoi colpi di scena spiazzanti, fatti ad arte per confondere lo spettatore. Che rapporto infatti possa esserci tra un collare per cani, un paraplegico a giorni alterni, le morti di Bob Kirby e Tony Stewart, e una misteriosa organizzazione, che dietro ad un giro di fotomodelle, nasconde prostituzione, spionaggio e ricatti, sarà il tema sviluppato nel corso delle sei puntate dello sceneggiato, in onda nuovamente a ritmo bisettimanale la domenica e il giovedì, dal 28 Settembre al 16 Ottobre 1969, riducendo così i tempi di trasmissione e il rischio di pericolose indiscrezioni. Ormai la Rai sapeva di poter contare su un successo sicuro quando si trattava di gialli a puntate, soprattutto se firmati da Durbridge, e anche stavolta non restò delusa. L'accoglienza del pubblico fu a dir poco entusiastica; il passaggio, poi, dal Secondo Programma al Nazionale e la collocazione domenicale favorirono ancora di più "Giocando a golf, una mattina" che raccolse un bel 80 di gradimento e oltre 15 milioni di spettatori di media. Tra i protagonisti, Luigi Vannucchi era Jack Kirby, Aroldo Tieri, per la quinta ed ultima volta in un giallo di Durbridge, di cui negli anni '60 era stato praticamente il simbolo, nel ruolo dell'amico Ed Royce, e poi in ordine sparso, Luigi Montini (Tony Stewart), Gaetano Bartolucci (il sovrintendente Bromford), Andrea Checchi e Marina Berti (i coniugi Scott), Mario Carotenuto (Norman Brooks, l'ambiguo proprietario di un negozio di animali), Giuliana Lojodice (la sua amica e fotomodella Jessica) e Luisella Boni (Kay Richardson), di ritorno dopo "Melissa" in un ruolo da bella e misteriosa. A questo proposito, da una rivelazione fatta dal regista D'Anza al Radiocorriere, pare che per il ruolo di Kay Richardson fosse stata ingaggiata Alida Chelli, di lì a poco sposa di Walter Chiari, ma la Chelli, degna compagna evidentemente del suo prossimo marito, non si fece mai vedere sul set, e D'Anza apprese solo parecchi giorni dopo che si trovava in Australia dove aveva raggiunto Chiari. La parte venne quindi assegnata a Luisella Boni. Come per "Melissa", i molti esterni di "Giocando a golf, una mattina" furono quasi interamente girati a Londra e anche stavolta le sigle, iniziale e finale, furono filmate tra le strade più popolari della capitale britannica, dalla City a Carnaby Street, nel tentativo, egregiamente riuscito secondo me, di metterne a confronto le due facce, tradizionale e moderna, con da una parte gli ingessati uomini d'affari in giacca e bombetta e gli impettiti soldati della Regina, e dall'altra i coloratissimi esponenti della gioventù londinese dell'epoca, ragazzi con lunghe basette e floride barbe e ragazze con vertiginose minigonne, mentre tra la folla si intravedevano i vari personaggi del giallo, sulle note delle musiche di Gigi Cicchellero (sua anche la canzone della sigla finale "Un impermeabile bianco" scritta con D'Anza e cantata da Paola Orlandi). Ma anche nelle scene in interni, girate come di consueto negli studi Rai, D'Anza, con la puntuale collaborazione dello scenografo Sergio Palmieri e del costumista Ezio Altieri, si sforzò diligentemente di ricostruire l'atmosfera vivace della "Swinging London" di quegli anni, con l'allestimento di ambienti tipici come locali notturni, studi fotografici e modernissimi appartamenti arredati secondo la moda del momento, e capi d'abbigliamento, parrucche e acconciature, esibiti dalle protagoniste femminili, Luisella Boni, Giuliana Lojodice e Marina Berti, oltre che dalle molte altre bellissime modelle che abbondano nella storia. Singolare poi la trovata di non inserire i titoli in sovraimpressione nella sigla iniziale, ma di farli recitare ad una voce narrante. Ma come vedremo, sperimentazioni insolite nelle sigle dei gialli di Durbridge saranno impiegate anche successivamente. 5) "Un certo Harry Brent" (1970) L'ancor più clamoroso successo di "Giocando a golf, una mattina", con i suoi 15 milioni e centomila spettatori di media, ma con punte di oltre venti milioni all'ultima puntata, aprì la strada a quello che fu il momento d'oro del rapporto tra Francis Durbridge e la Rai. Come una storia d'amore, iniziata dapprima timidamente, e irrobustitasi nel tempo grazie alle continue conferme di un reciproco trasporto, esplose con vigore negli anni a cavallo del decennio '60-'70. I fans del giallo televisivo non dovevano più aspettare un triennio per vedere un nuovo sceneggiato del loro autore preferito. I tre gialli successivi di Durbridge, infatti, andarono in onda a circa un anno di distanza l'uno dall'altro, e sempre più o meno a ridosso delle feste natalizie, subito prima o subito dopo, come un ulteriore ed atteso dono. Il giallo era ormai un genere molto frequentato sugli schermi di Mamma Rai, e nei dodici mesi che separavano "Giocando a golf, una mattina" dal nuovo sceneggiato, erano stati trasmessi tra gli altri: "La donna di cuori" con Sheridan, cinque puntate; "I giovedì della signora Giulia", ancora cinque puntate, tratto da un soggetto di Piero Chiara, ma soprattutto "Coralba" di Daniele D'Anza, anche questo in cinque puntate, una grossa co-produzione tra Italia e Germania, una delle prime della Rai che la vedeva associata alla RPA tedesca, e che fu un grandissimo successo, soprattutto qui da noi, grazie anche ad un Rossano Brazzi che ripeteva un po' il personaggio interpretato in "Melissa" (tanto che ci fu chi pensò erroneamente che si trattasse di un seguito di quello sceneggiato). Il soggetto di "Coralba" era firmato da Biagio Proietti, un nome che si sarebbe fatto presto largo tra gli autori televisivi degli anni '70, e di cui avremo modo di parlare tra poco. Il nuovo giallo di Francis Durbridge s'intitolava invece "Un certo Harry Brent". In realtà, in Inghilterra la versione originale era andata in onda nel 1965 col titolo di "A Man Called Harry Brent", e quindi non si poteva parlare di un copione recentissimo. Di conseguenza ancora una volta al nuovo regista, Leonardo Cortese, che subentrava al veterano D'Anza, si presentava il consueto rischio, incontrato dai suoi predecessori, delle indiscrezioni inopportune sul finale, e con ben cinque anni di storia alle spalle e chissà quante repliche, quel rischio era più presente che mai. Ma Cortese non era un novellino del genere, avendo al suo attivo già le ultime due "donne" di Sheridan, ed in predicato di concludere per l'anno seguente il poker con "La donna di picche". Per cui furono studiati tutta una serie di precauzioni per impedire, nei limiti del possibile, che voci incontrollate filtrassero dal set. Oltre alle solite, quelle classiche del tenere assolutamente secretate le ultime pagine del copione e girare più finali, e quelle più recentemente sperimentate con successo da D'Anza, il cambiamento dei nomi dei personaggi e il rimescolamento dei loro rapporti familiari e professionali, Cortese utilizzò un nuovissimo accorgimento squisitamente tecnico. Tutte le sequenze-chiave della storia furono girate, per così dire, a "pizzichi e bocconi": cioè, spesso a distanza di giorni se non di settimane, per confondere ulteriormente le idee agli stessi protagonisti, venivano girati dei primi piani in cui ogni attore diceva le sue battute, in totale isolamento dagli altri; poi i diversi spezzoni di pellicola venivano montati ad arte tra loro, fino ad assumere, ma solo al momento della trasmissione, un senso compiuto. Un lavoro certosino che il regista si assunse al termine delle riprese e che alla fine risultò più spossante della regia stessa. Quindi si capisce come dalle interviste ai vari attori, al di fuori delle scontate dichiarazioni di prammatica, risaltasse l'assoluta incapacità di questi di dare spiegazioni sensate su quello che avevano effettivamente realizzato, e men che meno, naturalmente, poter farsi scappare, anche involontariamente, il nome del colpevole. La storia, inoltre, possedeva decise caratteristiche spionistiche, quasi alla 007, con agguati, inseguimenti e omicidi tra le strade di Londra che sembravano fatte apposta per confondere le acque già abbastanza melmose dell'intrigo. Sam Fielding, piccolo industriale di Sevenoaks, un paesino del Kent, viene apparentemente senza una ragione ucciso a colpi di pistola nel suo ufficio da Barbara Smith, una misteriosa ragazza giunta da Londra per un colloquio di lavoro. Subito dopo la donna fugge e si mette in comunicazione con qualcuno che le dà un appuntamento, ma viene inconsapevolmente salvata dall'intervento della polizia che l'arresta un attimo prima che le sparino. L'assassinio getta lo scompiglio nel tranquillo villaggio e sconvolge la vita della giovane Susan Bates, segretaria di Fielding e prossima alle nozze con il proprietario di un agenzia di viaggi di Londra, Harry Brent. Susan che aveva già dato il preavviso per licenziarsi, si trova di colpo a dovere da sola gestire la ditta lasciata dal defunto, oltre che il lutto per la morte del suo datore di lavoro a cui era sinceramente affezionata. Intanto l'assassina arrestata si rifiuta non solo di dire le ragioni del suo gesto, ma anche solo di aprire bocca. Di fronte all'ostinato mutismo della ragazza, l'ispettore Alan Milton della polizia locale, ed ex-fidanzato di Susan, si trova costretto ad indagare alla cieca su un delitto apparentemente insensato. Niente infatti legava la vittima alla sua assassina. Invece, scopre Milton con sorpresa, dei legami sembrerebbero esserci proprio con Harry Brent, il promesso sposo di Susan che, per ovvie ragioni, Alan non vede con simpatia. Brent e la Smith, infatti, hanno viaggiato insieme nello stesso scompartimento sul treno da Londra e, particolare inquietante, Barbara aveva acquistato un mazzo di fiori che ha poi portato sulla tomba dei genitori di Brent al cimitero di Sevenoaks, prima dell'omicidio. I due allora si conoscevano? La cosa sembrerebbe confermata dal fatto che nella borsa della donna viene rinvenuto un biglietto per uno spettacolo teatrale a Richmond, un sobborgo di Londra, per il posto accanto a quello riservato allo stesso Brent. Questa sequela di indizi compromettenti non trova però spiegazioni nè da parte di Brent che nega ogni coinvolgimento, né tanto meno da parte di Barbara Smith, perché qualcuno la fa tacere per sempre avvelenandola nella cella del posto di polizia dove è rinchiusa. Prima di morire però la donna sussurra il nome di Harry Brent. Ma questo intricato inizio non è che la punta dell'iceberg di un plot in cui si confronteranno servizi segreti, agenti sotto copertura, sicari senza scupoli e un misterioso Signor X, a capo di una sezione inglese di una pericolosa organizzazione internazionale di spionaggio. Naturalmente i cadaveri abbonderanno. "Un certo Harry Brent", fu il primo giallo di Durbridge ad essere girato per gli interni nei nuovi studi di Napoli (che come vedremo assumeranno sempre più rilievo negli anni a seguire), mentre per gli esterni, tutta la troupe si trasferì come era ormai abitudine sui luoghi reali della storia, e cioè nel villaggio di Sevenoaks, a Londra ed a Richmond. L'esordio avvenne ancora di domenica ed ancora sul Nazionale, e nuovamente con la formula bisettimanale, andando in onda per sei puntate (ma sarebbe stata l'ultima volta) ogni domenica e martedì alle 21,05 dal 1 novembre 1970, e concludendosi, dopo tre settimane intensissime, il martedì 17 dello stesso mese. Ormai il successo dei gialli di Durbridge sembrava inarrestabile: il gradimento sfondò il muro già altissimo del 82%, toccando quota 83, mentre la media di ascolto si attestò a quasi diciannove milioni di spettatori. Contrariamente a ciò che era accaduto sotto la gestione di Daniele D'Anza, questa volta non fu il regista stesso ad adattare la traduzione della solita puntualissima Franca Cancogni, ma un giovane sceneggiatore con già all'attivo un giallo tv di grande successo, "Coralba", Biagio Proietti, che venne incaricato di intervenire sul copione di Durbridge per trasformare i sei episodi originali di mezz'ora in altrettanti episodi di durata doppia, allungando le scene, moltiplicando i dialoghi, approfondendo le psicologie dei personaggi. Sfortunatamente, "Un certo Harry Brent" è l'unica versione italiana di uno sceneggiato televisivo di Durbridge che non sono in grado di confrontare con l'originale, non essendo mai uscito nel nostro paese il romanzo omonimo, ed essendomi anche stato fino ad oggi impossibile rintracciarne una copia in inglese o in francese (l'unica edizione disponibile è in tedesco, lingua che mi è, ahimè, sconosciuta!). Quindi non so fino a che punto, Proietti abbia "manipolato", diciamo così, il copione di Durbridge, ma se dovessi sbilanciarmi in un'ipotesi, direi che sia intervenuto sicuramente sulla figura di Alan Milton, interpretato dal bravissimo Roberto Herlitzka. Questo funzionario di polizia, così ostentatamentemente grigio e banale, un tipo che non ti volteresti mai a guardare una seconda volta tanto sembra confondersi con l'ambiente circostante, che guida una macchinuccia quasi fantozziana, il cui aspetto fa a pugni con quello del suo facoltoso ed affascinante rivale in amore, Harry Brent (non a caso interpretato da quell'Alberto Lupo, indimenticato dottor Manson de "La cittadella", che da anni faceva strage di cuori tra le telespettatrici italiane di ogni età), ricorda troppo da vicino alcuni personaggi che Proietti, in coppia con la moglie Diana Crispo, creerà successivamente per i suoi gialli realistici e minimalisti (tipo "Dov'è Anna?), per trattarsi di una pura coincidenza. Insieme ai già citati Roberto Herlitzka e Alberto Lupo (alla sua prima, ma non ultima, esperienza con Durbridge), vanno ricordati tra gli altri: Enzo Garinei (il sergente Roy Philips) e Stefanella Giovannini (Barbara Smith), rispettivamente fratello e figlia della premiata coppia del musical italiano, Pietro Garinei e Sandro Giovannini; e poi Claudia Giannotti (Susan Bates), Carlo Hintermann (suo fratello Albert), Valeria Fabrizi (la cantante Sarah Miles, che come tale interpreta anche la canzone della sigla finale, la non indimenticabile "Un amico", scritta da lei stessa insieme a Cortese e Rein); Ferruccio De Ceresa e Marzia Ubaldi (i due ambigui coniugi Stone); Carlo Bagno (Sam Fielding) e Walter Maestosi (Bryan Finlay, uno degli spietati killer dell'organizzazione). Nell'ottica perfetta del gioco poliziesco, Cortese nei titoli di testa trascurò totalmente i nomi degli interpreti e presentò in video gli attori uno dopo l'altro, nell'ordine di apparizione puntata per puntata, semplicemente con i nomi dei rispettivi personaggi, completando la lista ogni volta con l'inquietante ombra sul muro del misterioso capo dell'organizzazione e colpevole principale del giallo, siglato con la dicitura de "Il signor X". Il tutto sulle note di "Roots of Oak", splendida canzone eseguita dal cantante scozzese Donovan. Purtroppo la suggestione di questa sigla, ogni volta differente perché ogni volta era diverso l'ordine di apparizione dei personaggi e perchè ad ogni puntata ne spuntavano di nuovi, si è un po' persa a causa evidentemente del deperimento del nastro originale, che ha costretto i curatori di Rai Teche a sfruttare la sigla della prima puntata anche per due puntate successive (la terza e l'ultima) sciupandone così in parte l'effetto. "Un certo Harry Brent" è andato in onda in questa edizione rimaneggiata diverse volte in questi ultimi anni ed è quella che si trova anche nei DVD. Fortunatamente si sono invece salvati gli splendidi riassunti "disegnati", ad opera di Dino Di Santo, che precedono ogni episodio, ancora un caso di originale sperimentazione in un giallo di Durbridge. Normalmente in questa mia disamina dei vari sceneggiati di Durbridge, cerco di evitare di raccontare i finali, anche se ormai dovrebbero essere conosciutissimi e stravisti da tutti, ma è una specie di accordo che intercorre tacitamente fra tutti gli appassionati di gialli. In questo caso però dovrò fare almeno parzialmente un'eccezione e prego quindi chi non volesse avere spoilers di saltare questo ultimo paragrafo. Non si può infatti parlare di questo giallo di Durbridge senza citare il tragico e anomalo finale che vide la morte del protagonista della storia, l'amatissimo Alberto Lupo, ucciso inaspettatamente dal bieco capo dell'organizzazione proprio nelle ultime fasi della storia. In questo particolare caso, contrariamente a quanto ho scritto precedentemente, essere stato il colpevole in un giallo a puntate non poté considerarsi una fortuna. In quanto, a quel che si disse, lo sventurato attore che aveva interpretato la parte dell'assassino divenne odiatissimo dai fans di Lupo, tanto da dover cambiare il numero di telefono (ogni giorno riceveva telefonate di insulti da qualcuno che evidentemente era riuscito a conoscere il suo indirizzo telefonico). Ma chissà, forse anche questa non fu altro che un'invenzione di qualche giornalista particolarmente fantasioso.
6) "Come un uragano" (1971) Nonostante il successo che gli sceneggiati gialli di Durbridge avevano sempre riscosso tra i telespettatori italiani, prima di "Un certo Harry Brent", nessuna delle opere dello scrittore inglese era mai riuscita a piazzarsi nella Top Ten degli ascolti. Ora, per essere precisi, bisognerebbe specificare che soltanto dal 1965 i dati del Servizio Opinioni venivano comunicati ufficialmente attraverso la pubblicazione sulle pagine del Radiocorriere TV, quindi non si hanno dati certi sul periodo antecedente, ma è difficile pensare che i quasi sei milioni de "La sciarpa", o i quasi quattro di "Paura per Janet", nel 1963, potessero seriamente essere riusciti ad entrare in una ideale classifica dei dieci programmi di maggior successo, quando a far la parte del leone erano quasi sempre, oltre all'onnipresente Festival di Sanremo, varietà, giochi a quiz, qualche importante appuntamento sportivo, o in alternativa i grandi sceneggiati tratti dai classici letterari, tutti trasmessi sul Programma Nazionale, che contavano non meno di dodici-quindici milioni di spettatori a testa. Il primo giallo a puntate a riuscire ad entrare in classifica fu, proprio nel 1965, "La donna di fiori" diretto da Anton Giulio Majano, prima inchiesta "lunga" del popolarissimo tenente Sheridan, che con i suoi tredici milioni e seicentomila spettatori di media a puntata si piazzò all'ottavo posto in quell'anno. Negli anni immediatamente successivi nessuno sceneggiato poliziesco, né Sheridan con le sue altre "donne", né tantomeno "Melissa" o "Coralba" di Daniele D'Anza, riuscì nell'impresa di dare la scalata alla classifica. Solo "Giocando a golf, una mattina", nel 1969, con quindici milioni e centomila arrivò a sfiorare la decima posizione, strappatale però da "I fratelli Karamazov" per soli trecentomila spettatori in più. Ma nel 1970, finalmente "Un certo Harry Brent" di Francis Durbridge riuscì a sfondare quel muro, apparentemente invalicabile, e con i suoi diciotto milioni e ottocentomila spettatori si piazzò ad un onorevolissimo settimo posto, migliorando di una posizione il risultato ottenuto da Sheridan cinque anni prima e divenendo di fatto il secondo giallo a puntate mai riuscito ad entrare nella mitica Top Ten. Il primo firmato dallo scrittore inglese ma, come vedremo, non l'ultimo. In quel 1971, che a Novembre avrebbe visto arrivare sugli schermi della Rai la sesta versione italiana di un giallo televisivo di Durbridge, l'evento mediatico dell'anno a livello di fiction era stato "Il segno del comando", curioso mix tra detective-story e ghost-story, diretta dal veterano Daniele D'Anza su un soggetto originale di Flaminio Bollini e Giuseppe D'Agata, che tenne incollato al video il pubblico italiano per cinque domeniche, tra Maggio e Giugno, nel seguire le avventure del professor Edward Foster (Ugo Pagliai) alla scoperta dei misteriosi segreti soprannaturali celati negli antichi vicoli della Roma sette-ottocentesca e all'inseguimento di un fantasma con le affascinanti fattezze di Carla Gravina. Una storia di reincarnazione e di parapsicologia (molto di moda in quel periodo) che è rimasta un classico tra gli sceneggiati Rai, tutt'oggi di gran richiamo ad ogni nuova edizione in DVD e citatissima in ogni libro o articolo che si occupi dell'argomento, ma che per quanto successo abbia potuto riscuotere (ci credereste?) non riuscì a piazzarsi nella classifica dei dieci programmi più seguiti dell'anno. Cosa che invece riuscì qualche mese dopo, e più che egregiamente, a "Come un uragano", il nuovo giallo di Francis Durbridge, in onda per la prima volta in sole cinque puntate, dal 28 Novembre al 12 Dicembre, ogni domenica e martedì sul Nazionale. Anche nello script originale, "Bat Out of Hell", datato 1966, Durbridge, era stato costretto per la prima volta, per un'improvvisa decisione dei dirigenti della BBC, a ridurre le classiche sei puntate da 30 minuti l'una a cinque, contraendo la trama della quinta e della sesta in un'unica puntata, ma come ormai ben sappiamo, le cose funzionavano diversamente in Italia, ed anche se pure da noi ci fu la diminuzione di una puntata, restava il problema di rimpinguare adeguatamente la storia per trasformare le due ore e mezzo scarse della serie inglese nelle cinque ore abbondanti della versione italiana. Ancora una volta, sotto l'attenta regia di Silverio Blasi, regista esperto ma esordiente assoluto nel genere poliziesco, Biagio Proietti fu chiamato ad adattare la traduzione di Franca Cancogni del testo di Durbridge, per produrre una nuova sceneggiatura che soddisfacesse le esigenze di durata richieste dalle trasmissioni Rai. E per la prima volta (evidentemente questo era lo sceneggiato delle "prime volte"), lo fece, non limitandosi ad aggiungere od allungare scene e dialoghi, ma inserendo un'altra trama nella trama originaria. Infatti, a grandi linee, la storia scritta da Durbridge raccontava di un delitto progettato da una donna e dal suo giovane amante ai danni del marito di lei e dei guai in cui i due improvvisati criminali incappano quando il cadavere scompare e qualcuno comincia a perseguitarli. Si trattava, come si vede, di un giallo un po' più classico dei soliti di Durbridge a base di più o meno vaste organizzazioni criminali e di misteriosi capi senza volto. Proietti pensò bene invece di reintegrare nella storia proprio quei requisiti che "mancavano", rinforzando il plot con elementi più caratteristici dello stile "durbridgiano". Nella cittadina di Alunbury, nel Suffolk, il nuovo ippodromo di recente costruzione sta rapidamente diventando un punto di riferimento per gli appassionati di eventi ippici, sollevando l'attenzione di Scotland Yard che ha notato strani e cospicui movimenti di denaro, tanto da sospettare che un'importante organizzazione di scommesse clandestine vi abbia messo gli occhi sopra. A questo scopo da Londra è arrivato l'ispettore Clay, ufficialmente per sostituire il suo collega locale, l'ispettore Booth, in procinto di partire per un periodo di vacanze, ma in realtà per indagare di nascosto sull'ippodromo. Particolarmente sorvegliati sono Ken Harding, un piccolo allibratore del luogo, e Albert Roach, ricco impresario edile e proprietario dell'ippodromo stesso. Nel frattempo, apparentemente estraneo a tutto questo, si sta svolgendo un classico dramma famigliare. Diana Stewart, la bella e trascurata moglie di Geoffrey Stewart, l'agente immobiliare di Alunbury, ha intrecciato con il giovane assistente di suo marito, Mark Paxton, una relazione sentimentale, e insieme i due hanno progettato di sbarazzarsi del ricco ed avaro coniuge per godersi l'eredità. Un giorno, Paxton, con un pretesto riesce a trascinare Geoffrey in una vecchia e cadente casa, sostenendo che Albert Roach ha intenzione di acquistare il terreno per costruirci un albergo. Lieto di potersi finalmente sbarazzare di una proprietà che credeva invendibile, Geoffrey abbocca e Paxton lo uccide con due colpi di pistola. Secondo il piano previsto, i due complici dovrebbero liberarsi del corpo portandolo in una cava di pietra vicina dove verrebbe per sempre seppellito dalle esplosioni provocate dai lavori in corso. Così in attesa di trasferirlo nella sua ultima dimora, Paxton nasconde il morto sulla sua auto e la parcheggia nel garage di una casa deserta. Ma quando Mark torna per recuperare il cadavere, questo è scomparso. E poco dopo, Diana riceve una telefonata da suo marito, in cui il "defunto" le ingiunge di riconoscere il suo corpo quando verrà chiamata per l'identificazione. Spaventatissima, la donna si confida con l'amante che però si rifiuta di credere che a telefonarle sia stato Geoffrey. Tuttavia il giorno dopo, un corpo sfigurato, ma con gli abiti di Stewart, viene effettivamente ritrovato nella pietraia in cui i lavori sono stati inaspettatamente interrotti, e Diana e Mark non possono fare altro che fingere di riconoscere il marito di lei. Indagando in coppia sul caso, gli ispettori Booth e Clay annusano subito qualcosa di strano nell'atteggiamento di Diana e Paxton, ma esaminano anche da vicino l'entourage di amici e conoscenti degli Stewart, dai coniugi Glenda e Paul Cooper, proprietari di un elegante negozio di lampadari, a Bill Grant, gestore di un parco di auto usate, all'ambigua Kitty Ryan, padrona di un negozio di dolciumi e ficcanaso ufficiale del paese. Seguendo le indicazioni di una nuova telefonata del presunto morto, questa volta ricevuta da Glenda Cooper, Diana si reca ad un appuntamento con il marito in una località vicina, Pine Lodge, ma qui trova ad aspettarla Clay, giunto anche lui su una segnalazione anonima, ed una brutta sorpresa: il cadavere di Geoffrey è stato ritrovato proprio lì privo di vestiti e morto da almeno due giorni, mentre il corpo da lei identificato sembra essere quello dell'allibratore, Ken Harding. Ora Diana dovrà rispondere a molte difficili domande. Ma soprattutto ad alcune che si pone lei stessa: a chi apparteneva la voce che al telefono si è presentata come suo marito? E perché adesso la sua amica Glenda nega di aver mai ricevuto la chiamata di Geoffrey, affermando che è stata lei a dirle di averla avuta? E che significa la frase "A Diana, entrata nella mia vita come un uragano", fatta incidere da Geoffrey su un portasigarette d'oro, ritrovato nella tasca della sua pelliccia, ma che lei non ha mai visto? Altri cadaveri, naturalmente, si aggiungeranno alla lista, collegando presto le due vicende, quella delle scommesse truccate e quella del complotto uxoricida, solo apparentemente slegate. Come di consueto mi sono limitato a fare un rapido sunto delle prime fasi della storia, invitandovi, se ancora non l'avete vista, a recuperarla nella versione DVD in cofanetto (o in alternativa su YouTube, dove credo che tutti gli sceneggiati di Durbridge, da "Melissa" in poi, siano disponibili). Dicevo più sopra, che Proietti aggiunse all'intrigo da "delitto in famiglia" di Durbridge, tutta la trama associata all'organizzazione delle scommesse clandestine e all'ippodromo, che nell'originale non esisteva, ma lo fece con tale maestria ed utilizzando un tema che si legava così bene a Durbridge che i due capi della storia finiscono per amalgamarsi perfettamente, anche se l'ultima puntata dovette essere quasi completamente riscritta, lasciando del testo originale praticamente solo l'identità del colpevole e poco altro. E il pubblico televisivo premiò lo sceneggiato diretto da Blasi con l'incredibile media di quasi ventidue milioni di spettatori a puntata, e con punte di oltre venticinque nell'ultima. Il miglior risultato di ogni tempo per un giallo alla televisione italiana. Questi ascolti da finale dei mondiali di calcio fruttarono a "Come un uragano" il podio nella Top Ten del 1971, con un bellissimo terzo posto, subito dietro a "Canzonissima" e alla serata finale del Festival di Sanremo, e davanti a pesi massimi degli ascolti come il "Rischiatutto" di Mike Bongiorno e ad uno dei più famosi sceneggiati di Anton Giulio Majano, "E le stelle stanno a guardare", tratto da Cronin, con Giancarlo Giannini, Orso Maria Guerrini e Anna Maria Guarnieri, tra gli attori più amati della tv di quel tempo. Ma anche il giallo di Durbridge poteva sfoggiare un cast di tutto rispetto: Alberto Lupo, redivivo dopo l'infelice fine di "Un certo Harry Brent", tornava nel ruolo dell'ispettore Clay; la splendida e giovanissima Delia Boccardo (allora appena ventitreenne) era Diana Stewart; Corrado Pani, altro idolo del pubblico femminile dell'epoca, era Mark Paxton; e poi, Renzo Montagnani come Bill Grant, Adriana Asti e Cesare Barbetti nella parte di Glenda e Paul Cooper, Nora Ricci, vecchia gloria del teatro italiano, come la ficcanaso Kitty Ryan, Renato De Carmine come il losco Albert Roach, e lo stesso regista Silverio Blasi si ritagliò una breve parte (breve perché lo fanno fuori già nella prima puntata) nel ruolo dell'allibratore Ken Harding. Aggiungerei anche Gabriella Grimaldi, che appare solo dalla quarta puntata nel ruolo di una ragazza che darà una svolta decisiva al caso, e che è in realtà la sorella di Delia Boccardo. Girato come di consueto in estate, per poter essere pronto alla messa in onda in autunno inoltrato, tra Roma e, per gli esterni, l'Inghilterra, in particolare Londra e Claire, un villaggio ad un centinaio di chilometri dalla capitale britannica, dove fu ricostruito il paesino di Alunbury, "Come un uragano" fu avvolto dalla solita cappa protettiva di mistero sulle riprese che tanto bene aveva funzionato nelle occasioni precedenti a livello mediatico, assicurandosi un elevato grado di curiosità da parte dei giornali e del pubblico. L'unica indiscrezione che circolava sul set era che questa volta Alberto Lupo sarebbe giunto incolume alla fine. Lui non sarebbe stato una delle vittime, non solo perché era il poliziotto che conduceva le indagini, ma soprattutto perché dopo il trambusto di "Un certo Harry Brent", nessuno si sarebbe preso la responsabilità di farlo morire di nuovo sullo schermo. Il finale, invece, e quindi il nome del colpevole, vennero, a quanto si disse, nascosti anche allo stesso regista, che asseriva negli articoli del Radiocorriere TV di essere stato affiancato sempre da un funzionario della Rai che gli suggeriva continuamente cosa riprendere, come riprenderla e per quanto riprenderla. Dovette, come i colleghi che l'avevano preceduto, girare più finali, ma stavolta senza sapere lui stesso quale fosse quello vero, che sarebbe stato deciso e montato sotto la supervisione di questo non meglio identificato "funzionario" solo a poche ore dalla messa in onda dell'ultima puntata. Se questa fosse solo l'ennesima invenzione dell'ufficio stampa della Rai per acuire la curiosità dei lettori, non saprei dirlo ma non lo escluderei. Il commento musicale fu affidato a Bruno Nicolai, compositore anche per il cinema e stretto collaboratore di Ennio Morricone di cui aveva diretto tra l'altro le musiche per i film di Dario Argento, che portò appunto echi "morriconiani" nella colonna sonora, tanto che nei momenti di tensione pare di riconoscere le tipiche note stridenti di alcuni temi de "L'uccello dalle piume di cristallo" o "Il gatto a nove code". Ma anche la regia di Blasi sembra farsi debitrice in più di un momento della lezione argentiana, e più in generale delle atmosfere dei "thrilling all'italiana", tanto di moda proprio in quegli anni, con insistite soggettive dell'assassino e primi piani sulle sue minacciose mani guantate di nero. Di Nicolai anche "Diana", la bellissima sigla finale cantata da David King, su immagini caleidoscopiche che ripetono quelle dei quasi inesistenti titoli di testa, ruotando sullo schermo proprio "come un uragano".
7) "Lungo il fiume e sull'acqua" (1973) Nei primi anni '70 soffiavano venti di rinnovamento sull'Italia televisiva. La concessione ventennale esclusiva alla Rai per i servizi radiotelevisivi stava per scadere, e mentre alle frontiere di lì a poco si sarebbero affacciate le prime emittenti straniere (quelle che verranno popolarmente definite "TV estere", TeleMonteCarlo, TeleCapodistria, la TV Svizzera), già a settembre del 1972 un'emittente privata di casa nostra, Telebiella, iniziava a trasmettere con una certa regolarità. Insomma, stava cominciando ad avvertirsi una certa aria di novità e, anche se in concreto non sarebbe avvenuto niente di rilevante ancora per un po', avrebbe portato alla fine alla cosiddetta "Riforma della Rai", che avrebbe cambiato profondamente il modo di fare e vedere televisione nel nostro paese. Ma le novità non sarebbero state solo amministrative, e proprio il 1972 rappresentò, consapevolmente o no, un punto di svolta per la fiction alla Rai, che con "A come Andromeda" si aprì ad un genere nuovo per gli sceneggiati, la fantascienza, che porterà negli anni risultati interessanti ma discontinui. Diretto da Vittorio Cottafavi, "A come Andromeda" fu realizzato con la stessa tecnica utilizzata per Durbridge, prendendo, cioè, un copione televisivo inglese (firmato da Fred Hoyle e John Eliot, tradotto e adattato da Inisero Cremaschi), e girandone una versione con attori italiani, in questo caso Luigi Vannucchi, Paola Pitagora e Tino Carraro, tra gli altri. Anche il giallo, però, aspirava a rinnovarsi, cercando, ad esempio, nuovi sbocchi nelle storie di Friedrich Dürrenmatt, "Il giudice e il suo boia" e "Il sospetto", dirette da Daniele D'Anza, entrambe trasmesse in due puntate, con Paolo Stoppa nella parte del problematico e angosciato commissario Barlach, che trasformavano la classica detective-story in un claustrofobico racconto esistenzialista. Questi due brevi sceneggiati risultarono importanti perché preannunciavano un nuovo modo di fare giallo in tv. I nuovi autori che crescevano alla Rai, registi e sceneggiatori, ispirati dal cinema soprattutto europeo della fine degli anni '60, rifuggivano i "generi", guardati per lo più con sospetto, se non con disprezzo, e se proprio dovevano affrontarli volevano farlo da un nuovo punto di vista. Nel caso del giallo, queste nuove leve davano il bando al poliziotto "tutto d'un pezzo", quella macchina investigativa che aveva la sola funzione di svolgere indagini e smascherare assassini, rifiutando in pratica la struttura tipica del racconto poliziesco (delitto-indagine-soluzione), per concentrarsi di più sui personaggi che, secondo loro, dovevano smettere di essere semplici marionette di un gioco studiato a tavolino, e diventare esseri umani realistici, con tutti i pregi e tutti i difetti degli esseri umani reali. Destrutturare l'impianto poliziesco classico significava anche, proprio come nella realtà, perdere la certezza che ogni enigma trovasse una spiegazione. Nei nuovi gialli, le indagini procedevano a fatica, la soluzione era incerta, e gli assassini, ammesso si riuscisse ad identificarli, o risultavano poveri disperati più vittime che colpevoli, o addiritura riuscivano a sfuggire alla legge perché protetti da "poteri forti" che ne assicuravano l'immunità. Insomma, questa nuova filosofia di giallo, che potremmo definire "neorealista", strappava il genere al mondo della fantasia, dove la giustizia finiva sempre per trionfare, per precipitarlo nella realtà di tutti i giorni, in cui sappiamo bene che raramente questo avviene. E uno di questi nuovi autori era proprio Biagio Proietti, che segnò un po' il confine tra i due modi di "pensare" il giallo, l'antico e il moderno. Avendo iniziato la sua carriera in Rai scrivendo gialli a puntate di impianto classico, che fossero di sua mano, come "Coralba", o adattamenti di opere altrui, come appunto i gialli di Francis Durbridge, Proietti aveva comunque inserito elementi innovativi, a cominciare proprio dalle figure dei poliziotti, umani al punto di apparire grigi ed anonimi come l'ispettore Milton di "Un certo Harry Brent", ampliando poi negli anni il discorso fino ad arrivare nel 1976 a "Dov'è Anna?", forse la sua opera più conosciuta e ricordata come autore televisivo, in cui le indagini sulla scomparsa di una donna si sviluppano attraverso sette puntate, piene di errori, di false piste, di vicoli ciechi, proprio come quelle che si svolgerebbero nel mondo reale, e proprio come quelle facendo temere che non trovino mai uno sbocco risolutivo, e quando alla fine il mistero si dissolve, non c'è catarsi, nessuna soddisfazione, resta solo l'amarezza; e il commissario Bramante (Pier Paolo Capponi) si lascerà sfuggire una frase emblematica: "Era tanto tempo che non risolvevo più un caso, che avevo dimenticato quanto possa essere terribile la verità." Nel 1972, questi movimenti sono ancora in nuce, ma probabilmente non può considerarsi un semplice caso il fatto che, quasi in contemporanea, due pilastri del giallo televisivo più classico della Rai che avevano tenuto compagnia al pubblico dalla prima metà degli anni '60 e oltre, vengano "pensionati" forzatamente proprio in quell'anno. Mentre il commissario Maigret, interpretato da Gino Cervi per 34 episodi, suddivisi in quattro cicli di grande successo, in "Maigret in pensione" finisce davvero per ritirarsi a vita privata, l'altro baluardo del poliziesco autoctono, il tenente Sheridan, al secolo Ubaldo Lay, nato addirittura alla fine degli anni '50 nel gioco a quiz "Giallo Club", fa appena a tempo a smascherare il suo ultimo colpevole ne "La donna di picche", che concludeva il suo poker di donne, prima di essere abbattuto da un colpo d'arma da fuoco il 7 aprile del 1972, dopo 13 anni di successi. A questi potremmo aggiungere Nero Wolfe, del grande Tino Buazzelli, che aveva però risolto il suo ultimo caso nel 1971. Comunque sia, la "morte", civile o fisica, di queste colonne del giallo, in un periodo di tempo relativamente breve, segnò un momento indubitabilmente importante per la fiction tv in Italia, e fece capire che un'epoca, e con essa un certo modo di fare televisione, stava chiudendosi. Anche per Durbridge, il 1972 rappresentò una svolta. Venne infatti girato quello che sarà l'ultimo degli sceneggiati "lunghi" ricavati dai copioni dello scrittore inglese, cui seguirà una pausa che terrà il nome di Durbridge lontano dagli schermi della Rai in prima serata (repliche escluse) per quasi tre anni e mezzo, ma anche quando vi tornerà non sarà più la stessa cosa. D'altro canto anche nella stessa Inghilterra, gli sceneggiati televisivi di Durbridge si facevano sempre più rari. Dopo averne realizzati 16 tra il 1952 e il 1966, lo scrittore, dopo un intervallo durato ben cinque anni, nel decennio dal 1971 al 1979, quando chiuderà la sua carriera di autore televisivo per dedicarsi con maggior impegno al teatro, fornirà alla BBC solo tre copioni. Per amor di precisione, va anche ricordato che tra il 1969 e il 1971, la BBC produsse, in collaborazione con la televisione tedesca, tre stagioni di una serie di telefilm intitolata "Paul Temple", con protagonista lo scrittore-detective, creato da Francis Durbridge per la radio circa trent'anni prima, ma ancora allora popolarissimo. Dei 52 episodi totali, la Rai ne trasmise solo tredici, in maniera peraltro molto discontinua tra l'Ottobre del 1972 e il Novembre del 1973, ma al di là della simpatia dei due protagonisti, Francis Matthews, nella parte di Paul Temple, e Ros Drinkwater, in quella della moglie Steve, i telefilm restavano molto distanti dalle tipiche storie di Durbridge. Questi infatti, aveva concesso solo lo sfruttamento dei suoi due personaggi e mai firmò nessuno degli episodi, né come sceneggiatore, né come soggettista. Intanto il nuovo telegiallo, girato come di consueto in piena estate e presentato su tutti i giornali con il titolo di lavorazione "L'altro uomo" (traduzione fedele dell'originale "The Other Man" del 1956, il più vecchio copione di Durbridge mai realizzato fino ad allora in versione italiana), con la traduzione della solita fedelissima Franca Cancogni e l'adattamento (ancora, ma per l'ultima volta) di Biagio Proietti, fu affidato ad Alberto Negrin, un giovane alla sua prima regia di un giallo televisivo. Negrin (che dirigerà negli anni a seguire opere importanti per la Rai, come "Il picciotto" nel 1973, debutto televisivo di Michele Placido come protagonista, "Majachowsky" nel 1976, "Io e il duce" nel 1985, e il kolossal internazionale "Il segreto del Sahara" nel 1987, solo per citarne alcuni) aveva una formazione cinematografica e documentaristica e la utilizzerà in modo originale nella storia di Durbridge, realizzando di fatto più che uno sceneggiato, un vero e proprio film televisivo. Ma riassumiamo prima per sommi capi la vicenda, che prende le mosse dal ritrovamento sull'Happy Time, una casa battello sulle rive del Tamigi, ad Hampton, ancora una volta una cittadina a pochi chilometri da Londra, di un cadavere dal volto sfigurato. Il corpo viene identificato per quello di Paolo Morani, uno scienziato italiano residente in Inghilterra. La barca sulla quale è stato rinvenuto appartiene ad un certo James Cooper, di cui però nessuno sembra avere notizie da parecchi giorni. Nell'interrogare le persone presenti quel giorno nelle vicinanze dell'Happy Time, l'ispettore Ford, un poliziotto vedovo che ha lasciato la grande città per trasferirsi insieme al figlio Roger in un posto più a sua misura, incontra Katherine Sheldon, la nipote del medico locale, in vacanza presso lo zio, che afferma di aver visto scendere dalla barca un uomo che si è poi allontanato su una macchina passata a prenderlo. La ragazza non sa chi sia ma ritiene di poterlo riconoscere se lo rivedesse. Ed è quanto accade, quando durante una partita a tennis con lo zio nel campus dell'università locale, riconosce nel professor David Henderson, stimato docente dell'ateneo, proprio l'uomo che ha visto scendere dall'Happy Time il giorno della scoperta del delitto. La dichiarazione della ragazza, molto sicura di sé, mette in grave imbarazzo l'ispettore Ford che ha con Henderson un grosso debito di gratitudine per aver consentito a suo figlio di accedere al college, grazie ad una borsa di studio, nonostante le loro precarie condizioni finanziarie. Ford all'inizio non vorrebbe crederci, ma gli indizi a carico del professore si accumulano sempre più e l'atteggiamento contraddittorio di questi che gli mente a più riprese non aiutano di certo. Coadiuvato fuori dall'ufficialità nelle indagini dal cognato Bob Marshall, ex poliziotto ora datosi alla carriera di pubblicitario che sembra non aver dimenticato il suo antico mestiere, Ford incontrerà altri personaggi, come la bella Billie Reynolds, che abita nel battello accanto, lo Xanadu, e che potrebbe aver visto molto, ma che per motivi suoi ha deciso di tenerlo per sé; Ralph Merson, il riccone locale, che per nascondere una sua relazione con la stessa Billie si confida in segreto con Ford; oltre all'ambizioso giornalista Robin Craven all'eterna ricerca dello scoop della vita. Alcuni nuovi delitti confonderanno ancora di più il già confusissimo ispettore, che se la dovrà vedere con intrighi internazionali e scontri tra organizzazioni spionistiche, ben lontani dal suo placido mondo di poliziotto di provincia. Anche se come dicevo girato nell'estate del '72, la trasmissione del nuovo giallo che, abbandonato il titolo di lavorazione, fu ribattezzato, in omaggio al tema ricorrente del fiume su cui si svolge gran parte della vicenda, "Lungo il fiume e sull'acqua", venne posticipata al gennaio dell'anno dopo e andò in onda in cinque puntate, in appuntamento bisettimanale al sabato e martedì, dal 13 al 27 Gennaio 1973. Nel cast, troviamo tra gli altri. Giampiero Albertini, perfetto nel ruolo dell'ispettore Ford (versione Biagio Proietti); Sergio Fantoni come il professor Henderson, Laura Belli come Katherine Sheldon, Renato De Carmine come Bob Marshall, Francesco Carnelutti come Robin Craven, Franco Graziosi come Ralph Merson, e Nicoletta Machiavelli come Billie Reynolds. Nella parte di Roger, il figlio dell'ispettore Ford, troviamo poi un giovanissimo Daniele Formica, ancora lontano dall'immagine di attore comico e di cabaret che si sarebbe data negli anni seguenti. Il copione di Durbridge, per altro piuttosto datato, essendo stato scritto circa un quindicennio prima, venne attualizzato ed ampliato da Proietti che, come in quelli precedenti, allungò scene e dialoghi, inserendo molti elementi che nel testo originale erano solo accennati, ricostruendo rapporti e parentele tra i personaggi, con l'aggiunta di morti e perfino di un ulteriore finale che smascherava negli ultimissimi istanti dell'ultima puntata il doppio gioco di un complice "nascosto" del colpevole, ribaltando completamente l'originale lieto fine di Durbridge. Purtroppo uno sciopero dei tipografici, proprio nel periodo della trasmissione, che impedì un'uscita regolare dell'indispensabile Radiocorriere TV, distribuito per diversi numeri incompleto nei servizi e nell'impaginazione, rende oggi piuttosto lacunose le notizie intorno a questo sceneggiato. Non ci sono pertanto articoli ed interviste agli attori o al regista che lo confermino, ma mi pare di poter osservare che, probabilmente in ossequio al nuovo concetto di giallo che stava nascendo, stessero andando un po' a cadere tutte quelle cautele che erano state utilizzate in precedenza per proteggere il nome del colpevole da indiscrezioni. Anche se molti, ma non tutti, i nomi dei personaggi originali vennero cambiati, non si hanno infatti voci di tripli finali o di copioni chiusi in casseforti ed estratti solo all'ultimo momento, nè tanto meno di funzionari addetti a sorvegliare le riprese. Questo non significa che non ci siano stati, forse lo sciopero cancellò i servizi che le avrebbero raccontate, ma è anche possibile che la cosa non suscitasse più la curiosità di una volta nella stampa. Anche i giornali stavano infatti mutando atteggiamento verso eventi televisivi che non avevano più la risonanza di un tempo. Non solo, erano anche cominciate su alcuni quotidiani delle campagne di aperta critica agli "sprechi" della tv di stato nella produzione di spettacoli, che fossero di varietà o di fiction, che costavano enormi quantità di denaro. I tempi stavano decisamente cambiando. Le reazioni di stupore quasi fanciullesco davanti alle sontuose scenografie ed alle esibizioni di lustrini e paillettes degli anni '50' e 60 entravano in archivio per sempre, lasciando il posto ad uno spirito più critico e perfino polemico da parte della stampa del settore. Nel campo degli sceneggiati, le critiche riguardavano anche le sempre più costose trasferte all'estero che, come abbiamo visto, in particolare nei gialli di Durbridge, erano diventate frequentissime. E ovviamente, in questo, "Lungo il fiume e sull'acqua" non faceva eccezione. Anzi, la regia molto cinematografica di Negrin usò con grande dovizia di mezzi i consueti esterni inglesi, da Londra a Liverpool, passando per la cittadina di Hampton sulla riva del Tamigi, a sud della capitale, dove vennero girate la maggior parte delle scene in esterno. Negrin utilizzò, inoltre, una tecnica molto innovativa all'epoca. Sfruttando la sua esperienza di documentarista e di regista di film-inchiesta fece un largo utilizzo di telecamera a mano, seguendo gli attori nelle strade, per i viali del campus, o i corridoi del college, in lunghi piani sequenza, e riprendendo in primissimo piano i volti dei protagonisti (soprattutto i bravissimi Fantoni e Albertini), scavando nei loro tratti le emozioni dei personaggi, soffermandovisi spesso anche quando a parlare erano i loro interlocutori, quasi a spiarne le reazioni. Questa nuova e singolare tecnica di racconto televisivo spiazzò dapprincipio i telespettatori, abituati a metodi di ripresa più ortodossi, che finìrono comunque per premiare con ascolti record anche quest'ultimo giallo di Durbridge, che con una media di quasi ventuno milioni a puntata riuscì a portarsi addirittura al secondo posto della Top Ten dei programmi più seguiti del 1973. (Ma segnaliamo anche i diciasette milioni che seguirono la serie di telefilm "Paul Temple", e che fruttarono un più che rispettabile nono posto, portando il nome dello scrittore inglese per ben due volte in classifica nello stesso anno.) Della colonna sonora, resta soprattutto nella memoria ancora oggi la bellissima "Vincent", canzone scritta ed eseguita da Don McLean, che sulle sue dolci note accompagnava le quasi poetiche immagini della sigla iniziale e quelle dei titoli di coda, entrata nelle orecchie e nei cuori della gente, al punto da conquistare per settimane la vetta della "Hit-Parade"; ma non sarebbe giusto dimenticare i molti affascinanti temi musicali composti da Roberto De Simone, studioso appassionato di musica folkloristica (non a caso fu tra i fondatori della Nuova Compagnia di Canto Popolare), ispirati ad antichi motivi tradizionali inglesi che riempivano di echi suggestivi la vicenda. 8) "A casa una sera ..." (1976) Nell'estate del 1973, i fans italiani di Durbridge che ormai si erano abituati da quattro anni ad avere notizie in quel periodo dell'anno di qualche nuovo sceneggiato del loro idolo in preparazione, restarono delusi. L'estate passò, e passò anche l'autunno senza che nessuna buona nuova giungesse dai soliti canali, Radiocorriere TV o altri settimanali del settore. Certo i gialli, in quell'anno e in quello successivo, non mancarono: dall'esordio di quello che si può considerare il primo vero esempio di una serie di telefilm polizieschi italiani, "Qui Squadra mobile", tratti da romanzi e racconti di Felisatti e Pittorru, una nuova coppia di giallisti, che è un po' progenitrice di tutte le moderne fiction su squadre o distretti di polizia, ma che a differenza di quelle era perfettamente inquadrata in un contesto realistico, proprio come richiedevano i canoni del "nuovo giallo"; a "Serata al Gatto Nero", dei veterani Casacci e Ciambricco, ormai orfani del tenente Sheridan, che imbastirono questo curioso giallo in due puntate, a metà tra fiction e varietà; a "Ho incontrato un'ombra", del nostro Biagio Proietti, oggi ricordata soprattutto per la splendida colonna sonora del maestro Pino Calvi; all'arrivo di due personaggi classici del poliziesco ante-guerra, uno nostrano, "Il commissario De Vincenzi" di Augusto De Angelis, e un'altro arrivato dritto dritto dall'America proibizionista e dandy degli anni '20, "Philo Vance" di S.S.Van Dine. Interpretati rispettivamente da due leoni della tv e del teatro come Paolo Stoppa e Giorgio Albertazzi, fecero rivivere, ciascuno per tre storie di due puntate l'una, ai cultori del giallo classico quella vecchia familiare atmosfera che sembrava già archiviata dai tempi nuovi. E la lista potrebbe anche allungarsi se ci aggiungessimo le stagioni 74-75 e 75-76 e ci soffermassimo su "Ritratto di donna velata" di Flaminio Bollini, "La traccia verde" di Silvio Maestranzi, il già citatissimo "Dov'è Anna?" di Piero Schivazappa, su soggetto e sceneggiatura di Biagio Proietti in coppia con la moglie Diana Crispo, ed altri ancora. Ma fino alla primavera del 1976 nessuna notizia di Francis Durbridge in tv. L'unica occasione in cui gli appassionati dello scrittore inglese poterono lenire un po' la loro crisi di astinenza fu nel Febbraio del 1975, quando il Secondo Programma radiofonico mandò in onda una nuova inchiesta di Paul Temple, "La ragazza scomparsa", la sesta trasmessa in versione italiana, in cui ancora una volta lo scrittore detective cambiava voce, assumendo stavolta i toni caldi e profondi di Alberto Lupo. Ma dicevamo, nell'Aprile del 1976, mentre la tv di stato era ormai in piena riforma (cambiavano i vertici, stava arrivando una terza rete e i tre canali assumevano le denominazioni di Rete 1, Rete 2 e Rete 3, finendo rispettivamente ognuno sotto l'egida dei tre partiti maggioritari, DC, PSI e PCI, in quella che sarà chiamata la "lottizzazione della Rai"), i fedeli lettori del Radiocorriere trovarono quello che era poco più che un trafiletto, dal titolo decisamente curioso: "Durbridge all'ombra del Vomero". Nelle sue poche righe, l'anonimo redattore annunciava la produzione di un nuovo giallo televisivo di Durbridge in arrivo nei mesi seguenti sui canali Rai che si sarebbe intitolato "La bambola", e spiegava, quasi con un sottile senso di soddisfazione, come questa volta non ci fossero da affrontare trasferte in Inghilterra, dato che la vicenda si sarebbe ambientata totalmente a Napoli e zone limitrofe. Con un colpo di mano più o meno improvviso, infatti i nuovi vertici della tv di stato, avevano deciso di dare un taglio ai costi e alle conseguenti critiche che sempre più spesso provocavano da parte dei media. Quasi tutti gli ultimi gialli erano stati girati per le scene in interni nei nuovi studi di Napoli, quindi tanto valeva con alcuni sapienti rimaneggiamenti delle trame spostare le storie stesse in quei luoghi. E così sarebbe avvenuto per almeno i due seguenti sceneggiati di Durbridge, strappati ai caliginosi panorami britannici per precipitarli in quelli assolati dell'entroterra napoletano. Ma prima di tutto questo, i fans italiani di Durbridge avrebbero avuto la possibilità di godersi un'ultima sua storia di ambientazione inglese. Infatti, improvvisamente quasi senza farsi annunciare, sul finire di Settembre, approdava sugli schermi di Rete 2, l'ex Secondo Programma, "A casa, una sera", non uno sceneggiato questa volta, bensì un'opera teatrale, il cui titolo originale era "Suddenly At Home", il primo lavoro di questo genere realizzato da Durbridge nel 1971 e andato in scena con grande successo fin da quell'anno, prima al Royal Theatre di Windsor, e successivamente al Fortune Theatre di Londra. Nella seconda metà degli anni '60, Durbridge aveva interrotto la sua attività di autore di scripts televisivi e radiofonici (il suo ultimo radiodramma, "La Boutique", peraltro scritto su richiesta, era del 1967, mentre "Bat Out of Hell", il suo più recente lavoro televisivo risaliva al 1966) in favore del suo nuovo interesse che lo avrebbe impegnato maggiormente negli ultimi decenni della sua vita: il teatro. Tra il 1971 e il 1998, anno della sua morte, infatti, Durbridge produsse solo tre nuovi copioni per la tv, tutti negli anni '70, e nessuno per la radio, limitandosi a rielaborare soltanto alcuni suoi vecchi radiodrammi, dedicandosi quasi esclusivamente a scrivere romanzi, alcuni originali ma per la maggior parte novelizations di suoi vecchi copioni televisivi e radiofonici, ed a produrre opere teatrali. Entrambe queste attività gli consentivano sicuramente un ritmo di lavoro più tranquillo, senza dover correre dietro ai tempi stretti della radio e della televisione, e più consono alla vita di un flemmatico signore di campagna, come l'autore era divenuto in quest'ultima fase. In tutto, Durbridge avrebbe scritto una decina di commedie, tutte rigorosamente poliziesche, l'ultima delle quali, "Fatal Encounter", uscita postuma nel 2002. "A casa, una sera", diretta da Mario Landi (regista di tutti i Maigret con Gino Cervi, compreso un episodio girato per il cinema), con la traduzione dell'immancabile Franca Cancogni e l'adattamento televisivo dello stesso Landi, era una versione piuttosto fedele dello spettacolo da cui era tratta, la cui impostazione teatrale, tutta giocata in interni, permise di mantenere l'ambientazione originale inglese, pur girando l'intera vicenda negli studi Rai di Torino. Trasmessa in due serate consecutive, giovedì 23 e venerdì 24 Settembre 1976, raccontava una storia abbastanza diversa da quelle a cui Durbridge ci aveva abituato. Nessun misterioso assassino da smascherare, nessun complotto a base di bande criminali di ricattatori o spie, ma solo un complicato piano uxoricida esplorato nel suo divenire. Insomma la più classica delle situazioni da "intrigo in famiglia", più nello spirito di un Hitchcock o di una Christie che non del nostro Durbridge. La vita coniugale di Maggie e Glenn Howard è solo apparentemente felice. Lei, in seguito alla morte del padre, ha ereditato una fortuna, ma per entrarne in possesso ha dovuto rinunciare alla burrascosa convivenza con Sam, uno scrittore di gialli di non eccelse qualità, e sposare Glenn. Lui ha un lavoro rispettabile che lo ha reso preferibile a Sam, ma che non gli consente di competere finanziariamente con la moglie, di cui ha un gran desiderio di sbarazzarsi. Ha anche un'amante, Sheila, attrice e amica di Maggie. D'accordo con Sheila, Glenn organizza quello che sembra un delitto perfetto. Fissa un falso appuntamento dal parrucchiere per la moglie, la soffoca con un cuscino, poi l'affonda con la macchina in uno stagno presso la casa di Sam, inscenando un incidente. Sheila, fingendosi Maggie, dovrà poi telefonargli a casa, dove lui avrà procurato la presenza di un testimone, il medico di famiglia, nel momento della telefonata della "moglie". Ma mille imprevisti complicano l'attuazione del piano: una telefonata inattesa, la cognata Helen che piomba in casa mentre il cadavere è ancora sul divano, il medico costretto a disdire l'appuntamento, Sam che si rivolge alla polizia, Sheila che ha una reazione pericolosa in presenza di testimoni. E benché Glenn, con incredibile sangue freddo, riesca a far fronte a tutto, dovrà sudare molto più di quanto immaginasse per cercare di sviare i sospetti dell'ispettore Happleton e più ancora del sorprendente sovrintendente Remick di Scotland Yard, un investigatore il cui intervento non era previsto nel suo "delitto perfetto". Il cast era composto da Nino Castelnuovo (Glenn), Enrica Bonaccorti (Maggie), Lia Tanzi (Sheila), Giampiero Bianchi (Sam), Grazia Maria Spina (Helen), Tommaso Bartorelli (Happleton) e Ugo Cordea (Remick). Purtroppo questa è l'unica opera di Durbridge in versione italiana, da "Melissa" in poi, da cui non sia mai stato realizzato un DVD (nè peraltro mi risulta sia mai stata nemmeno replicata, almeno da moltissimi anni a questa parte), per cui c'è la seria possibilità che la registrazione sia andata persa o danneggiata. Il ricordo che ne avevo io era un po' nebuloso, e ho dovuto quindi ripassarmi il testo originale della commedia (pubblicato per chi fosse interessato, come tutti gli altri lavori teatrali di Durbridge, dalla casa editrice "Samuel French" di Londra) oltre che ricorrere alle sempre utilissime schede illustrative del Radiocorriere TV per ricavare questo riassunto un po' sommario, ma che spero abbia chiarito abbastanza la trama. Speriamo che prima o poi, dai meandri labirintici delle Teche Rai, sempre potenziale fonte di infinite sorprese, riemergano i nastri di questo lavoro dimenticato di Durbridge, per poter tornare a disposizione di noi appassionati. Inoltre, per questioni tecniche i dati del Servizio Opinioni per gli anni dal '75 al '79 risultano incompleti e non è di conseguenza possibile dare le percentuali di gradimento, o le medie di spettatori a puntata né per questo, né per i successivi sceneggiati di cui ci occuperemo nei prossimi capitoli. Ma intanto, mentre gli spettatori italiani, appassionati del giallo e di Durbridge in particolare, si gustavano questo inatteso antipasto, il piatto forte, cioè il nuovo sceneggiato, terminate le riprese, passava alla fase di montaggio e post-produzione, pronto ad apparire sugli schermi di Rete 1 (l'ex Programma Nazionale). E il Radiocorriere TV ne dava conferma nel suo numero dei primi di Ottobre. Il titolo sarebbe stato "Dimenticare Lisa", invece de "La bambola", ma, come dicevamo, non sarebbe stato l'unico cambiamento. Per citare Fiammetta Rossi, che scrisse l'articolo: "Dimenticare Lisa si differenzia abbastanza dall'originale di Durbridge, molto riscritto e manipolato. [...] Non si tratta del solito giallo con la meccanica ricerca dell'assassino di turno, bensì di una storia criminosa di stampo contemporaneo in cui le spiegazioni e le responsabilità non sono così facili da scoprirsi e da misurarsi fino in fondo." Tutto molto in tema con il nuovo modo di interpretare il racconto poliziesco di cui parlavamo nelle puntate precedenti. E come vedremo, la giornalista sapeva esattamente di cosa stava parlando.
9) "Dimenticare Lisa" (1976) Dopo decenni in cui si era sempre ritenuto che il giallo fosse inadatto ai solatii panorami italiani, e gli intrighi delittuosi inscindibili dalle nebbiose strade di Londra o dai tortuosi vicoli di qualche metropoli americana, dapprima timidamente negli anni '60, con i film di Mario Bava ("La ragazza che sapeva troppo"; "Sei donne per l'assassino"), e poi agli inizi degli anni '70 con l'arrivo di Dario Argento ("L'uccello dalle piume di cristallo"; "Il gatto a nove code"; "Quattro mosche di velluto grigio") e dei suoi epigoni che formarono un solido gruppo di registi specializzati in film gialli dalle tinte fosche e violente, passati alla storia come "thrilling all'italiana", il cinema aveva insegnato che il punto non era dove le storie venivano ambientate, ma come venivano raccontate. Il successo di queste pellicole aprì le porte della televisione ad Argento che nel 1973 portò qualche stralcio dei suoi incubi metropolitani sul piccolo schermo con la breve serie di telefilm "La porta sul buio". Frenando moltissimo sul sangue e la violenza di cui erano generalmente intrise le sue storie cinematografiche, Argento confezionò, con l'aiuto di alcuni suoi collaboratori di lungo corso, Luigi Cozzi, Alberto Pariante, Mario Foglietti, quattro episodi autoconclusivi, quattro mini-film di un'ora l'uno che scossero profondamente con la loro tecnica e la loro crudezza i canoni un po' ingessati del giallo televisivo della Rai. Ma soprattutto fecero capire che se una storia ben confezionata avveniva in un contesto che lo spettatore conosceva bene, poteva ottenere un effetto anche superiore. Un delitto commesso in una qualche lontana città estera poteva rientrare quasi nell'ordine della fiaba, del gioco. Mentre invece uno perpetrato tra le mura di un appartamento romano, milanese, o napoletano, che avrebbe potuto benissimo essere quello della porta accanto, dava al tutto un sapore più inquietante. E i nuovi autori che crescevano proprio in quegli anni nella Rai colsero al volo la lezione. Da Felisatti e Pittorru con "Qui Squadra Mobile" e "Albert e l'uomo nero", a Biagio Proietti e Diana Crispo con "Dov'è Anna?", "L'ultimo aereo per Venezia" e "Doppia indagine", gli anni '70 furono tutta una riscoperta delle ambientazioni nostrane per il giallo. E che tutto questo ovviamente rientrasse perfettamente in una nuova politica di maggior parsimonia nelle spese non era solo una felice coincidenza. Ma la Rai si spinse anche più in là, imponendo ambientazioni italiane anche per le vicende scritte da autori stranieri. A partire proprio da quelle di Francis Durbridge. E la prima storia di Durbridge a subire questa "italianizzazione forzata" fu nel 1976 "Dimenticare Lisa", tratta da "The Doll", uno script in tre puntate che l'autore inglese aveva prodotto per la BBC appena l'anno prima. A differenza, infatti, dei decenni '50 e '60, in cui la televisione inglese mandava in onda le sue mini-serie divise in sei puntate di 30' circa l'una, negli anni '70, la politica aziendale era cambiata e si era deciso per una compattazione delle storie in tre puntate di 60'. Già nel 1971, con il suo script precedente, "The Passenger" (che come molti altri suoi copioni per la televisione non ha mai avuto una versione italiana), Durbridge si era trovato a dover concentrare la vicenda in tre capitoli, diluendo sapientemente la suspence, con un più approfondito scavo psicologico dei personaggi e una migliore preparazione delle situazioni, frutto anche del suo recente amore per il palcoscenico. Quindi con "The Doll" non fece altro che affinare ulteriormente questa evoluzione delle sue tecniche di giallista, scrivendo quella che è ritenuta da molti l'opera migliore del suo ultimo periodo di autore televisivo. Tuttavia la versione italiana, a prescindere dalla differente collocazione territoriale e dai soliti cambiamenti dei nomi dei personaggi, alcuni dei quali stavolta giustificati proprio dalla diversa ambientazione, o delle loro professioni (il protagonista nella storia originale è un editore e non un antiquario) subì delle modifiche che pur non minandone l'impatto nel complesso, diedero soprattutto al finale un'interpretazione piuttosto lontana da quella voluta dall'autore. Ma esaminiamo rapidamente la trama dello sceneggiato: Peter Goodrich, un antiquario inglese che vive a Napoli dove gestisce una galleria, conosce per caso di ritorno in volo da un viaggio, una ragazza americana, Lisa Carter e se ne sente subito attratto. La simpatia pare reciproca, ma la cosa potrebbe finire lì se casualmente Peter non la incontrasse di nuovo pochi giorni dopo in un garage dove Lisa vuole prendere a noleggio una macchina. L'uomo le offre di utilizzare la sua e fra i due sembra sbocciare qualcosa. Prima da un amico giornalista, Max Finney, e poi dalla stessa donna, Peter apprende le drammatiche circostanze in cui Lisa ha perso il marito Norman, caduto in mare da uno yacht durante una traversata sul Mar Tirreno. Lisa gli racconta che Norman era ossessionato dalla sua passione per le bambole di cui aveva una vasta collezione e che la notte della sua scomparsa, i due avevano avuto un violento alterco perché lei aveva dimenticato di mettere nel bagaglio l'ultima bambola da lui acquistata. Successivamente non trovando il marito da nessuna parte sullo yacht, Lisa si era allarmata, finché aveva scoperto terrorizzata una bambola a galla nella vasca da bagno. La scoperta della bambola aveva preceduto solo di poche ore quella del corpo di Norman, morto annegato. L'inchiesta della polizia non aveva portato a nessuna conclusione certa anche se c'era chi aveva parlato di suicidio. Lisa pare ancora sconvolta dalla recente tragedia e sta recandosi per una visita da un caro amico del marito, Sir Arnold Wyatt, un vecchio avvocato inglese in pensione che vive in una villa nei dintorni. Volendo rivedere la donna, Peter le dà in prestito la sua auto, con l'impegno che gliela restituisca al ritorno. Ma Lisa non torna nè quella sera, né il giorno dopo, e Peter ha la sorpresa di vedersi riportare la macchina da dei poliziotti. La sua auto infatti è stata ritrovata su una strada deserta con un biglietto con sopra il suo indirizzo, ma senza chiavi. Sempre più perplesso e preoccupato, Peter decide di recarsi alla villa di Sir Arnold, ma qui lo attende la sorpresa più inattesa: Sir Arnold afferma di non aver mai conosciuto o sentito parlare nè di Norman né di Lisa Carter e nega assolutamente che quest'ultima gli sia mai venuta a fare visita. L'atmosfera nella villa è comunque misteriosa, e nel parco Peter vede aggirarsi una bambina che stringe tra le braccia una grossa bambola. E una bambola dello stesso tipo ritroverà a galla nella vasca da bagno del suo appartamento. Poco prima che la polizia venga a prelevarlo per portarlo sul luogo in cui è stato ritrovato il cadavere di una donna, ripescata in mare con nella borsetta le chiavi della sua auto... E fermiamoci qui per non rivelare altri dettagli della diabolica macchinazione che si nasconde dietro la misteriosa Lisa e la sua scomparsa. Basti dire che di volta in volta nella storia si affacceranno personaggi ambigui ed altri forse solo apparentemente amichevoli, come il già citato Max Finney, il non ancora citato ma fondamentale Claude Goodrich, famoso concertista e fratello di Peter, il fotografo Marino che sembra stranamente in possesso di una foto di Lisa che poi ancor più misteriosamente scompare, Greta Lehman, la governante di Sir Arnold, lo stesso Sir Arnold Wyatt che potrebbe nascondere più cose di quanto non appaia, ed un non meglio identificato colonnello Osborne, dei servizi segreti americani, che pare in possesso di tutte le risposte, e lascia invece dietro di sé più enigmi che soluzioni. Il sinistro tema delle bambole a galla sull'acqua che sembrano spuntare in concomitanza con il ritrovamento di cadaveri in mare o altrove, rende la vicenda particolarmente inquietante ed altri morti si aggiungeranno intorno al povero Peter, per il quale Lisa è ormai diventata un'ossessione, prima che la storia giunga ad un finale che, come accennavo prima, sarà però piuttosto diverso da quello originariamente pensato da Durbridge. Ma di questo parleremo più diffusamente in fondo a questo capitolo. Nell'ottica della lotta agli sprechi della nuova Rai riformata, "Dimenticare Lisa" venne trasmesso in sole tre puntate (come la versione originale, ma con una diversa scansione nei finali di puntata), mandate in onda in tre sabati consecutivi dal 9 al 23 Ottobre 1976 sulla Rete 1. Diretto con buon mestiere da Salvatore Nocita, che l'anno prima era stato il regista del fantascientifico "Gamma", aveva tra gli interpreti Ugo Pagliai (Peter Goodrich), ormai un abitué di teleromanzi del mistero ("Il segno del comando", "L'amaro caso della baronessa di Carini"), ma di ritorno in una storia di Durbridge ben tredici anni dopo "La sciarpa", Marilù Tolo (Lisa Carter), Carlo Enrici (Claude Goodrich), Yanti Sohmer (Greta Lehman), Luciano Melani (Max Finney), Tonino Cuomo (il fotografo Marino), Lucio Flauto (il commissario Bonetti), Sergio Rossi (il colonnello Osborne), ed il grande Emilio Cigoli, "voce italiana" dei più famosi divi di Hollywood, John Wayne e Gary Cooper in testa, nella parte di Sir Arnold Wyatt. Sostenuto anche dalle belle musiche di Pino Calvi (con l'aggiunta come sigla finale e tema di sottofondo alle apparizioni della seducente Marilù Tolo, niente di meno che dell'ever-green "I Only Have Eyes For You", nell'esecuzione di Art Garfunkel), lo sceneggiato regge piuttosto bene il cambio di ambientazione, proiettando gli spettatori nell'affascinante intrigo di Durbridge, e facendo subito dimenticare gli insoliti luoghi in cui si svolge. Così Londra diventa Napoli, e Poole Harbour e Heatherdown nel Dorset divengono la Marina di Seiano e Meta di Sorrento sulla Costiera Sorrentina senza che la storia subisca troppi contraccolpi. I contraccolpi li subisce invece quando, per motivi non sempre facilmente decifrabili, il meccanismo attentamente regolato da Durbridge viene caricato di elementi estemporanei che poco o nulla hanno a che vedere con la trama originale. Abbiamo già visto come fin dall'inizio i copioni dello scrittore inglese venivano "gonfiati" dagli adattamenti della Rai per raddoppiare la durata delle puntate, da trenta a sessanta minuti, ma lasciando sostanzialmente invariati gli eventi e la loro successione; poi negli anni a seguire, con l'intervento di un vero e proprio sceneggiatore come Biagio Proietti, si arrivò anche ad inserire nuove trame e addirittura finali posticci (la storia aggiunta del racket delle scommesse in "Come un uragano", e il doppio colpevole in "Lungo il fiume e sull'acqua"), ma il tutto veniva fatto con grande abilità, e in qualche caso il testo originale ne usciva perfino migliorato. Qui invece la traduttrice Franca Cancogni, a cui si deve anche l'adattamento dello script, è da ritenere responsabile (se davvero fece tutto da sola) di alcuni "scivoloni" che non trovano molte giustificazioni. Ne riferirò uno solo, che non coinvolge indizi risolutivi, ma che ha sollevato parecchie perplessità. Nel finale della prima puntata, Peter torna a casa e vede la porta aperta e le luci accese. Dentro qualcuno sta facendo a pezzi con un rasoio la bambola che aveva trovato nella sua vasca. Primi piani sulle mani di questo misterioso individuo, poi Peter entra ed esterrefatto scopre suo fratello Claude che lo fissa con occhi sbarrati, quasi da pazzo. Subito titoli di coda e fine della puntata. Emozionante, vero? Peccato, però, che nulla di questo esista minimamente nel copione originale di Durbridge. Si è trattato infatti di una di quelle trovate estemporanee di cui parlavo. Tanto è vero che nella prima sequenza della puntata successiva, i due si fanno una bella risata liquidando la cosa in un battibaleno. Ora c'è da chiedersi quale funzione potesse avere mai una scena del genere. Gettare sospetti anche sull'apparentemente angelico Claude? Ma non ce ne sarebbe stato alcun bisogno, perché avrebbe provveduto successivamente lo stesso Durbridge a farlo, e in modo di certo più sensato. Oppure creare un cliff-hanger, cioè un colpo di scena ad hoc? Anche questa ragione appare discutibile, visto che Peter ha appena scoperto una di quelle malauguranti bambole a galla nella sua vasca da bagno e subito viene chiamato ad identificare il cadavere di una donna con addosso le chiavi della sua auto. Mi sembra che come cliff-hangers non ci si potesse lamentare. Insomma, per farla breve, una scena assolutamente pretestuosa ed ingiustificabile. Non la sola, purtroppo, come dicevo, ma delle altre tacerò perché rivelerebbero particolari importanti della trama. Un discorso a parte lo merita invece lo scioglimento finale, e qui dovrò fare degli equilibrismi per spiegarmi cercando nel contempo di non svelare troppo, ma è una cosa che va detta. La soluzione confusa ed ambigua dello sceneggiato, per molti versi assai insoddisfacente e che lascia tante domande sostanzialmente irrisolte, è perfettamente in linea con il genere di polizieschi televisivi, cinematografici e letterari dell'epoca. Erano quelli che sarebbero poi stati ricordati come gli "anni di piombo". L'Italia era stretta in una morsa di crimini riconducibili ad organizzazioni politiche estremiste che si ipotizzava avessero legami con servizi segreti italiani e stranieri, mossi da fini eversivi e i cui vertici restavano sempre nell'ombra, cioé la cosiddetta “strategia della tensione”. Era fatale che scrittori e sceneggiatori si facessero influenzare. Già nel cinema, titoli di film come "La polizia ringrazia", "La polizia ha le mani legate", "La polizia sta a guardare", denunciavano a modo loro uno stato che era ostaggio dei cosiddetti "poteri forti" ed in cui i poliziotti diventavano, o ciechi strumenti di repressione, o emarginati che invocavano inutilmente giustizia, finendo per cercarla magari attraverso la canna di una pistola. Anche in tv, attraverso le cronache e le inchieste giornalistiche, questa realtà era finita per arrivare, e la fiction era solo il passo successivo. Il finale di "Dimenticare Lisa" è molto probabilmente frutto di questa atmosfera. La presenza nella storia originale di agenti dei corpi speciali della polizia britannica che agiscono in segreto, fornì il pretesto per inserirci un po' di "dietrologia", insinuando il sospetto che dietro i tanti delitti della vicenda si nascondessero in realtà chissà quali interessi occulti, protetti dal denaro e dai suddetti "poteri forti". Tradendo però totalmente Durbridge che è quanto di più lontano da queste cose. Nelle sue storie, di qualunque media si avvalgano, radio, cinema, tv, teatro o libri, i finali non lasciano mai incertezze. I colpevoli sono sempre chiaramente indicati, e "The Doll" non fa eccezione. Quindi chi vuole scoprire il vero finale della vicenda deve procurarsi una copia del Giallo Mondadori n.1847 del 24 Giugno 1984, di non difficile reperibilità, dove venne pubblicata la versione romanzata col titolo "La bambola sull'acqua". Lì troverà l'autentica soluzione dell'enigma, piena e soddisfacente, e potrà dare un volto chiaro e definito al misterioso organizzatore di un complesso intrigo a base di ricatti ed omicidi.
10) "Traffico d'armi nel golfo" (1977) Pur avendo creato nel 1938 il personaggio di Paul Temple, protagonista di oltre venti serials per la radio e di una dozzina di romanzi (per lo più novelizations di radiodrammi, ma anche soggetti originali) che gli aveva dato grandissima notorietà, Durbridge preferiva sicuramente scrivere storie senza personaggi fissi. E' un fatto che, ad esempio, per quella che dall'inizio degli anni '50 e per un trentennio fu la sua attività più assidua, cioè scrittore per la tv, lui non abbia mai prodotto un solo copione con protagonista il suo personaggio più celebre. (La serie di telefilm intitolata a Paul Temple e realizzata dalla televisione inglese tra il 1969 e il '71 non ebbe mai la sua firma come soggettista o sceneggiatore di nessuno degli episodi.) Tuttavia qualche eccezione ci fu. Ad esempio, nel 1960, Durbridge scrisse, su incarico della BBC, un ciclo di tre miniserie, divise ciascuna in sei puntate per un totale di diciotto episodi, che vennero mandate in onda una dopo l'altra tra il Novembre del '60 e il Marzo del '61. Data la lunghezza della serie, Durbridge si servì di tre collaboratori, ognuno dei quali lo affiancò nella realizzazione di un copione. Il titolo dell'intero ciclo era "The World of Tim Frazer" e s'incentrava su un ex-imprenditore ingegneristico, Tim Frazer appunto, che aveva visto fallire la sua ditta, anche a seguito della sconsideratezza di un suo amico e socio, e che per un complesso di circostanze, mentre cercava di rintracciarlo per farsi restituire il denaro che gli doveva, si era imbattuto in una pericolosa vicenda spionistica in cui l'amico sembrava coinvolto, che l'aveva portato a contatto con un certo Mr. Ross, a capo dello Special Branch (una specie di Digos britannica che anni dopo riapparirà anche in "The Doll"). Sfruttando la sua amicizia con l'uomo che anche lui stava seguendo, Ross "arruola" un po' a forza Frazer nel suo gruppo per la missione in corso, ma al termine di questa lo stesso Frazer deciderà di restare come membro effettivo, collaborando alla soluzione di altri due casi nelle storie successive della serie, "The World of Tim Frazer: The Salinger Affair" e "The World of Tim Frazer: The Mellin Forrest Mystery". Pur avendo personaggi ricorrenti, il protagonista, Tim Frazer, e Mr. Ross per primi, le storie erano assolutamente indipendenti tra loro, e la prima di queste, "The World of Tim Frazer" appunto, divenne diciassette anni dopo la decima opera firmata Francis Durbridge ad approdare in versione italiana sugli schermi Rai. Ne diede notizia, come al solito, per primo il Radiocorriere TV nell'Agosto del 1977, sottolineando che anche nel nuovo sceneggiato, che in italiano si sarebbe intitolato "Traffico d'armi nel golfo", così come in "Dimenticare Lisa" dell'anno precedente, la vicenda sarebbe stata trasposta sulle coste campane, tra Napoli e Sorrento, Castellammare Di Stabia e Pompei, dove il protagonista svolgeva la sua attività di archeologo. Chissà per quale motivazione l'ex-ingegnere Tim Frazer si trasformò in archeologo (ma ormai i cambi di nomi o di professioni nelle trasposizioni italiane di Durbridge erano divenute un'abitudine), ma non ci sono invece dubbi sul perché ancora una volta si fosse scelto di spostare la vicenda, che in origine si svolgeva tra Londra e il villaggio di Henton, sulle coste del Nord Inghilterra, fino al Golfo di Napoli: questioni squisitamente economiche, le stesse che avevano consigliato di dimezzare il numero di puntate degli sceneggiati. E gli accorgimenti per diminuire i costi di produzione non si fermavano qui. Come è stato giustamente segnalato da attenti osservatori, in realtà, diverse scene, soprattutto in esterni, dovevano essere già state girate in precedenza sui set di "Dimenticare Lisa" a Marina di Seiano, e alcuni attori di quello sceneggiato (Angrisano, Sestito, Cuomo) riapparivano anche qui. Tutto quindi lascia pensare che la Rai avesse iniziato la produzione di "Traffico d'armi nel golfo" in contemporanea a quella di "Dimenticare Lisa" (o addirittura prima, come testimonierebbero alcune immagini dei due sceneggiati messe a confronto), utilizzando gli stessi set proprio nell'ottica di limitare le spese all'osso. La regia venne affidata a Leonardo Cortese, che aveva già diretto nel 1970 "Un certo Harry Brent", divenendo così il secondo regista, dopo Daniele D'Anza, ad aver diretto più di uno sceneggiato tv di Durbridge. Mentre Franca Cancogni, che come al solito tradusse il copione originale, si avvalse stavolta per l'adattamento della collaborazione di Aurelio Chiesa. Gli attori erano, tra gli altri, Giancarlo Zanetti, nella parte di Tim Frazer, Lorenza Guerrieri come Helen Barker, Renato De Carmine, per la terza volta in un giallo di Durbridge, e Licia Lombardi come i coniugi Eric e Ruth Edwards, José Quaglio come Mr. Ross, l'inglese Norma Jordan come Debra Markos, Marcello Mandò come l'ispettore Ancona, Franco Angrisano, l'indimenticabile sacrestano Giacinto de "I ragazzi di Padre Tobia", nel ruolo di Traetta, Renato Montalbano come il dottor Bossi, e Filippo Alessandro nella parte dell'ambiguo vicino di casa. La sigla musicale che chiudeva ogni puntata era "Helen" di Dino Siani. E vediamo come la trama originale di Durbridge venne trasformata: Tim Frazer, un archeologo inglese che lavora a Pompei, si reca a Castellammare di Stabia dove Harry Denston, un suo vecchio amico dei tempi dell'università ad Oxford gli ha dato appuntamento per restituirgli finalmente un'ingente somma di denaro che si era fatto prestare molto tempo prima. Ma quando Tim arriva alla pensione dove dovrebbe risiedere Harry, di questi non c'è traccia. Stanco per il viaggio ed infastidito dal suo elusivo amico, Frazer si ferma ugualmente nella pensione dove è appena stato portato un uomo caduto da una nave proveniente dal Sud Africa e raccolto in fin di vita sulla spiaggia. Entrato per errore nella stanza dell'uomo, Frazer ne raccoglie un'ultima parola che non riesce a capire prima che questi muoia. Dopo che il cadavere è stato portato via, la mattina dopo Frazer rinviene accanto al letto del morto un biglietto con un numero di targa e l'indirizzo di un garage. Intanto da Londra arriva la fidanzata di Denston, Helen Barker, che in passato era stata anche la ragazza di Tim. I due sono rimasti amici, anche se è evidente che l'uomo vorrebbe ancora essere qualcosa di più, ed insieme si mettono alla ricerca di Harry. Helen riconosce sul biglietto trovato da Frazer il numero di targa dell'auto del fidanzato e infatti recatisi all'indirizzo del garage vi ritrovano la macchina lasciata da Denston giorni prima. Dopo averla frugata in cerca d'indizi, Tim trova un paio di occhiali in un astuccio. Sull'astuccio c'è anche l'indirizzo del proprietario, una certa Ruth Edwards, un'anziana signora inglese che pare ben felice di aver ritrovato le sue lenti anche se non riesce a spiegarsi come siano finite nell'auto di una persona a lei totalmente sconosciuta. La donna vive in una villa di Sorrento insieme al marito Eric, un'appassionato costruttore di modellini di antiche navi che racconta a Tim la storia della nave che sta costruendo, la "Croce del Sud", una nave negriera che alla fine del diciottesimo secolo era stata ritrovata senza carico e senza equipaggio, completamente abbandonata al largo delle coste africane. Nelle sue indagini, Tim viene contattato anche da un certo Mr. Ross, un ufficiale dei corpi speciali della polizia inglese che è in Italia per indagare su un traffico d'armi tra Europa ed Africa, il cui punto di smistamento si troverebbe proprio nel golfo di Napoli. Ross sospetta che Denston sia coinvolto e chiede a Tim di collaborare con loro al ritrovamento dell'amico che potrebbe essere in pericolo di vita. Insieme a Ross c'è anche l'ispettore Ancona, che Frazer ha già conosciuto alla pensione di Castellammare sotto un altro nome, e che era lì per seguire proprio la pista di Denston. Intanto qualcuno cerca di impadronirsi, con le buone o con le cattive, dell'automobile di Harry, ora in possesso di Tim. In particolare un poco raccomandabile venditore di auto usate, tale Traetta, che offre a Frazer una cifra molto più alta del suo valore per acquistarla. Tim, ancora frastornato dalla ridda di eventi che si succedono intorno a lui, si rende effettivamente conto di quanto la situazione sia davvero pericolosa, quando tornato a casa trova l'ispettore Ancona morente con un coltello nella schiena che gli sussurra qualcosa sulla "Croce del Sud", e il modellino della nave in bella mostra sulla mensola del suo caminetto. Come di consueto fermiamoci qui per non sciupare il gusto a chi ancora non abbia visto lo sceneggiato di poterlo recuperare in DVD. Sebbene vi siano numerosi dettagli differenti rispetto all'originale (ad esempio il vicino di casa e l'assistente di Frazer, Debra Markos, non esistono nel copione di Durbridge; non c'è mai stata nessuna relazione sentimentale tra Frazer ed Helen; il modellino è della "Stella del Nord", non della "Croce del Sud" e non c'è nessuna sinistra leggenda legata al suo nome; il marinaio morto, come la nave su cui era imbarcato, veniva dalla Russia e non dal Sud Africa; inoltre la vittima dell'omicidio nell'appartamento di Frazer non è un ispettore di polizia, ma un agente dello Special Branch che lavora direttamente per Ross), la prima puntata segue in maniera sufficientemente scrupolosa gli eventi. Nelle puntate seguenti invece, i semi piantati degli adattatori italiani, Cancogni e Chiesa, non possono non dare frutti che spingono la storia a discostarsi un po', in qualche caso parecchio, dalla trama originaria. Senza rivelare dettagli risolutori, possiamo qui semplicemente dire che l'intrigo che nella versione inglese riguardava un microfilm contenente la formula di una lega metallica rivoluzionaria che minacciava di finire oltrecortina, nella Germania dell'Est (erano i tempi della guerra fredda), qui invece s'incentra su un carico d'armi, a cui fa riferimento anche il titolo, conteso tra due bande di trafficanti al soldo di non ben specificate nazioni africane. Ma del resto tra le due versioni corrono ben diciassette anni, e alla fine degli anni settanta la situazione tra i due grandi blocchi, occidentale ed orientale, non era più tesa come all'inizio degli anni sessanta, quindi il fulcro della storia aveva bisogno di un'attualizzazione. Da qui anche la presenza di un personaggio creato ex-novo come Debra Markos che è appunto un'inglese di origine africana che lega la vicenda ai conflitti di quella terra, di grande attualità in quegli anni. Eppure, pur con qualche tentativo non troppo riuscito da parte di regista e sceneggiatori di alleggerire il racconto con siparietti "pseudo-umoristici" (vedi una per tutte, la scena di Frazer e Ross alle prese con l'occultamento di un cadavere tra imprevisti vari, che preconizza quasi un popolare blockbuster cinematografico di qualche anno dopo, "Weekend con il morto"), la storia tutto sommato funziona. L'intrigo di Durbridge è sostanzialmente rispettato, e benchè "Traffico d'armi nel golfo" difficilmente possa annoverarsi tra le opere migliori realizzate in Rai dai lavori dello scrittore inglese, resta uno sceneggiato godibile e sufficientemente intrigante da farsi seguire fino alla fine senza fatica. Così come "Dimenticare Lisa", con cui ha, come abbiamo visto, molti punti in comune, "Traffico d'armi nel golfo" venne mandato in onda per tre sabati consecutivi, tra il 12 e il 26 Novembre 1977. Francamente mi dispiace che i dati del Servizio Opinioni di quegli anni per ragioni tecniche non siano disponibili. Sarebbe stato interessante confrontare l'accoglienza del pubblico verso "Dimenticare LIsa" e "Traffico d'armi nel golfo" con i grandi successi degli anni '60 e e dei primi anni '70. L'unica cosa che sappiamo è che nessuno dei due raggiunse il podio delle trasmissioni più viste, ma mi piace almeno pensare che, sebbene con qualche immaginabile perplessità da parte dei fans più "puristi", il nome di Durbridge e i suoi affascinanti plots siano stati sufficienti ad assicurare, in quell'ultimo scorcio di Rai ancora in bianco e nero, un buon successo di ascolti e gradimento anche a questi due tardivi, imperfetti e tuttavia lodevoli tentativi di rivitalizzare, con una prospettiva nuova, le atmosfere dei vecchi gialli televisivi firmati Francis Durbridge. Perché comunque non sarebbe più accaduto.
11) "Poco a poco" (1980) Dopo essere tornato tra i protagonisti del giallo televisivo Rai, tra l'autunno del 1976 e la fine del 1977, per ben tre volte nel giro di poco più di un anno, il nome di Francis Durbridge scomparve nuovamente per un lungo periodo. Quando infine riapparve, si era quasi alla fine del 1980 ed agli albori del nuovo decennio, e diverse cose erano cambiate. Innanzitutto da ormai tre anni, la Rai aveva iniziato ufficialmente le sue trasmissioni a colori, ma soprattutto per la prima volta nella sua storia, si stava delineando un vero competitor nel settore televisivo. Per quanto potessero essere fastidiose, le piccole emittenti locali private che trasmettevano quasi a ciclo continuo film su film spesso di pessima qualità, o quelle tre o quattro televisioni estere non ricevibili neanche su tutto il territorio nazionale, non avevano mai rappresentato per la Rai delle vere concorrenti sul piano dei grandi ascolti, ma adesso c'era Canale 5, la nuova tv privata, nata dalle ceneri di TeleMilano e proprietà dell'imprenditore rampante Silvio Berlusconi, a cui presto si sarebbero unite anche Italia 1 e Rete 4 per formare un gruppo di emittenti commerciali che, grazie ad una rete capillare di distribuzione dei loro programmi in tutta Italia, avrebbero creato non pochi grattacapi ai vertici della televisione di stato per molto tempo a venire. Dopo quasi venticinque anni di assoluto monopolio, la Rai si trovava a doversi confrontare con avversari giovani ed agguerriti che sfornavano trasmissioni forse ancora un po' ingenue e dilettantesche, ma che minacciavano di crescere rapidamente e costituivano comunque per il pubblico italiano una costante ed intrigante "distrazione", con film spesso più recenti di quelli trasmessi dalla tv di stato, varietà che presentavano a ruota continua nuovi comici e splendide fanciulle dai costumi ridottissimi, e serie di telefilm e cartoons di grande impatto, che i vecchi dirigenti avevano a suo tempo trascurato o superficialmente ignorato giudicandoli inadatti al pubblico. Occorreva quindi, per battere o quanto meno contenere la concorrenza, cambiare marcia, e la Rai cominciò subito a cercare di adeguarsi ai nuovi ritmi imposti, ribattendo colpo su colpo. Vennero aumentate le ore di trasmissione; il vecchio monoscopio, che riempiva lo schermo nelle lunghe ore di pausa mattutine e a volte anche pomeridiane negli anni felici del monopolio, finì ben presto per ritrovarsi relegato a poche ore del primo mattino, sempre più ridotte fino a scomparire del tutto; mentre i varietà, i quiz, i telefilm che erano sempre stati ad appannaggio del tardo pomeriggio o della prima serata, invadevano ogni ora da mezzogiorno fino a mezzanotte. Scomparsa la "TV dei ragazzi", quell'oretta scarsa di telefilm, documentari e cartoni animati che era ormai diventata un appuntamento fisso per bambini e ragazzi di almeno tre generazioni, lo spazio a loro dedicato si frammentava nel corso di tutta la giornata, dalla mattina al tardo pomeriggio, fino a volte al preserale, grazie a serie televisive di avventura o sitcoms americane, o ai nuovi anime giapponesi a base di robot giganti o di orfanelli strappalacrime, mandati in onda con cadenza quotidiana. E naturalmente film, film, film. Non più solo il lunedì e il mercoledì come era accaduto tradizionalmente fino ad allora, ma praticamente ogni sera su almeno una delle tre reti, quando non c'era un quiz di Mike Bongiorno (che però presto avrebbe fiutato da che parte tirava il vento e si sarebbe unito al gruppo Fininvest di Berlusconi), un varietà con la Carrà o la Cuccarini, o un qualche nuovo sceneggiato o originale televisivo, definizioni che stavano d'altronde cadendo in disuso in favore di un più moderno "film tv", a puntate o no che fosse. E a questa ultima categoria era da ascrivere anche la nuova storia firmata Francis Furbridge che approdò infine sugli schermi italiani, dopo tre lunghi anni. Non è ben chiara la ragione per cui i vertici Rai decisero di ripescare quel nome, che non poteva che riaccendere memorie di un modo di fare tv che si riteneva appartenesse ormai al passato e alla vecchia Rai pre-riforma, in un momento in cui l'emittente di stato era invece alla ricerca di una sua nuova dimensione in un panorama televisivo in continua evoluzione. Così come resta tutto sommato un mistero perché, con tanti copioni televisivi scritti da Durbridge e ancora disponibili (come ad esempio il recentissimo "Breakaway", appena dell'anno prima, che avrebbe chiuso la sua carriera di autore televisivo), si fosse optato come soggetto per un dramma teatrale, il secondo messo in scena dallo scrittore inglese sei anni prima, nel 1974, "The Gentle Hook". Sta di fatto che nell'ultimo numero del 1979, (cioè quasi un anno prima dell'effettiva messa in onda) il Radiocorriere TV annunciava il ritorno di Durbridge sui nostri schermi, anche se senza più quella fanfara che avrebbe utilizzato solo una decina d'anni prima. Ormai il nome del "giallista contemporaneo più famoso della tv", come veniva definito, non smuoveva più l'interesse del grosso pubblico e sicuramente nessun giornalista si sarebbe dato da fare per scovare il nome del colpevole del suo nuovo giallo, magari telefonando a qualche collega d'oltremanica. D'altronde la trama originale fu talmente stravolta da rendere praticamente impossibile per qualunque reporter inglese individuare non solo il colpevole tra i personaggi, ma addirittura riconoscere la storia di Durbridge, che nell'adattamento italiano si sarebbe intitolata "Poco a poco". L'azione si sarebbe spostata da Londra a Milano, mantenendo quindi l'abitudine ormai consolidata da qualche anno in Rai di ambientare le storie gialle sempre e comunque sul suolo italico, anche se traslocando dalle rive del golfo di Napoli alle sponde del Naviglio, e i personaggi e l'intrigo poliziesco attorno a cui ruotavano avrebbero avuto connotati del tutto meneghini. Il testo originale di Durbridge, come sempre tradotto da Franca Cancogni, era infatti stata considerato "troppo inglese", come scrisse l'adattatore Giuseppe D'Agata, nell'articolo a sua firma apparso sul Radiocorriere TV n. 49 del 1980. Da qui la decisione di prendere l'intera vicenda e, per parafrasare Manzoni, "risciacquarla nelle acque del Naviglio" rendendola meno "insopportabilmente falsa e posticcia" (sto sempre usando le parole di D'Agata). Naturalmente tra le righe dell'articolo di Giuseppe D'Agata (che, ricordiamolo se ce ne fosse bisogno, resta sempre l'autore, insieme a Flaminio Bollini, di uno dei più indimenticabili ed affascinanti sceneggiati della vecchia Rai, "Il segno del comando"), si legge chiaramente quella che è l'impostazione dei nuovi vertici societari nei confronti del giallo, e dal loro punto di vista non c'è dubbio che D'Agata fece un "ottimo" lavoro, trasformando il plot originale (che raccontava la storia di Stacey Harrison, una giovane arredatrice londinese che, per proteggere il padre che teme coinvolto in un qualche misterioso traffico di opere d'arte false, si trova quasi inconsapevolmente nel mirino degli stessi trafficanti e invischiata in un delitto da cui il suo quasi ex-marito e un lungimirante ispettore di Scotland Yard faticheranno non poco per scagionarla) in una vicenda che sembra presa di peso da qualche romanzo di Scerbanenco, e non a caso, a dirigerla fu chiamato Alberto Sironi (futuro regista dei tanti Montalbano), che allora era un giovane della nuova scuola del giallo tv "neorealista", che solo l'anno prima aveva partecipato alla regia della serie di telefilm, "Quattro delitti", guarda caso, tratti da racconti dello scrittore milanese di origini ucraine. E quella di "Poco a poco" sembra proprio la Milano grigia e un po' squallida dei suoi romanzi ("Venere privata", "I milanesi ammazzano al sabato") da cui il cinema italiano ha spesso tratto ispirazione, come potrete giudicare da questo riassunto della trama. Il commissario Mario Braschi è il classico poliziotto "controvoglia" che si è lasciato alle spalle una moglie ed una carriera e svolge il suo lavoro con coscienza ma senza passione. Trasferito da Roma per cause non ben specificate, si trova a percorrere le strade del capoluogo lombardo accanto all'agente De Rosa, il suo collaboratore ed autista, sempre preoccupato per le trattenute della busta paga. Il pestaggio misterioso di un coreografo della Scala, tale Rada, abbandonato poi svenuto fuori città, seguito il giorno dopo dall'aggressione alla giovane costumista sua assistente, l'italoamericana Annie Conti, che riesce a difendersi e ad accoltellare il suo assalitore, un pregiudicato di nome Gabetto, precipitano il commissario dalla sua routine giornaliera in un groviglio di cui è difficile trovare i capi. All'inizio, l'omosessualità del coreografo fa pensare che i responsabili vadano ricercati in quell'ambiente, ma Braschi non ne è convinto. Per lui le due aggressioni sono collegate, ma si scontra con il mondo chiuso e diffidente che ruota intorno al teatro milanese. Rada, ristabilitosi, continua a ribadire di non ricordare quasi nulla, mentre Annie afferma di non conoscere l'uomo che l'ha assalita. Braschi spera che lasciando fuggire Gabetto, che a sua volta si rifiuta di parlare, dall'ospedale in cui è ricoverato dopo l'accoltellamento, si potrà seguendolo vedere se contatterà quelli che l'hanno pagato. E la pista porterà i primi frutti, quando l'uomo cerca rifugio nella casa di un pittore, Domenico Gioia, detto Dominic. Questi infatti è scomparso da giorni ed ha incaricato prima di darsi alla macchia la sua ex-moglie Giovanna di recapitare un suo quadro proprio ad Annie Conti, la quale a sua volta lo ha portato al padre, Ferruccio Togliani, un vecchio insegnante d'arte che ora vive di espedienti e scommettendo alle corse e di cui Dominic era stato un allievo. Alla lista dei personaggi vanno poi aggiunti l'avvocato Conti, marito separato di Annie, ma forse ancora innamorato di lei, e Luciano, il giovane assistente di Rada, il cui ruolo nella vicenda potrebbe essere meno marginale di quanto sembri. Alla fine Braschi, che nel frattempo ha intrecciato una relazione con Annie, riuscirà a smascherare i responsabili di un giro di quadri d'autore falsi, ma non prima che ci sia scappato il morto... Ed ecco gli interpreti: il commissario Braschi era Flavio Bucci; l'agente De Rosa era Diego Abatantuono, il "terrunciello" della commedia all'italiana di quegli anni, forse per la prima volta in un ruolo serio; Annie Conti era Teresa Ann Savoy, una starlet inglese assurta rapidamente alla notorietà in un cinema come il nostro fin troppo incline a dare visibilità a chiunque abbia un bel faccino e venga dall'estero, ma che qui mostra tutta la sua incapacità di recitare, e anche solo di parlare in un italiano passabile; e poi, in ordine sparso, Franco Fabrizi (Togliani), Renato Scarpa (Rada), Rino Cassano (Luciano), Giorgio Mauro (Gabetto), Italo Dall'Orto (l'avvocato Conti), Luciano Virgilio (Dominic), per finire con una menzione d'onore per Mariolina Bovo (Giovanna), un'attrice dalla recitazione semplice e pulita, che pur senza aver mai avuto ruoli di rilievo, ha attraversato tutta la storia degli sceneggiati e della fiction Rai quasi in silenzio ma con grande professionalità. La colonna sonora, poi, curata da Paolo Conte, che è autore anche della sigla finale, "Uomo-camion", è inframmezzata da canzoni di cantautori milanesi, Jannaci e Celentano in testa, che fanno spesso da sottofondo ai dialoghi, contribuendo a sottolineare la "milanesità" che impregna tutta la storia. "Poco a poco" andò in onda in tre puntate, ma contrariamente a "Dimenticare Lisa" e "Traffico d'armi nel golfo" non nell'arco di altrettanti sabati, ma in soli otto giorni, da domenica 30 Novembre a domenica 7 Dicembre, con la puntata di mezzo fissata per il venerdì 5. Inoltre venne programmato sulla Rete 2. Non accadeva più dal 1966, con "Melissa", che uno sceneggiato a puntate di Durbridge fosse mandato in onda su un canale diverso dal vecchio Programma Nazionale, ora Rete 1. Un ulteriore segnale di una disaffezione da parte della nuova dirigenza verso Durbridge? Forse, ma è difficile a dirsi, in quanto ora i canali Rai non erano più interscambiabili come una volta. Rispondevano a direzioni diverse, quindi questa non era necessariamente valutabile come una "retrocessione". Poteva darsi che l'idea di produrre il film tv fosse semplicemente nata e sviluppata tra la dirigenza della Rete 2. Ma come venne accolto dal pubblico? Quanto agli ascolti, il Servizio Opinioni che tornò a fornire i dati proprio quell'anno, ci dice solo che "Poco a poco" non si piazzò in nessuna posizione della Top Ten dei programmi più seguiti, senza darci ulteriori informazioni a riguardo. Per quel che riguarda gli appassionati dei vecchi sceneggiati di Francis Durbridge, invece, posso immaginare con quanta perplessità dovettero seguire questa sua ultima opera. Anche se probabilmente nessuno a quell'epoca poteva rendersi conto di quanto poco del testo originale fosse rimasto nella sceneggiatura di Giuseppe D'Agata (malgrado i titoli di testa avvisassero che si trattava di un "libero adattamento"), ciò che deve averli colpiti soprattutto è l'assenza stessa dello spirito dell'autore nella storia. Durbridge era noto anche in Italia per l'abilità quasi da prestigiatore con cui riusciva a costruire complicati giochi di specchi in cui ogni dettaglio ne rimandava ad un altro in un'infinita sfilata di indizi contraddittori, rivelazioni spiazzanti, delitti e colpi di scena, i cosiddetti cliff-hangers, che solitamente chiudevano la puntata, lasciando gli spettatori confusi ma eccitati allo stesso tempo e col desiderio di risintonizzarsi la volta seguente per scoprire quali altri conigli il mago nascondesse nel suo cappello. Insomma, in ogni sua storia il suo stile era facilmente riconoscibile. Di tutto questo, in "Poco a poco", invece non c'era neanche l'ombra. La trama procedeva piatta e monotona, di cliff-hangers neanche a parlarne, gli eventi anche drammatici (il pestaggio del coreografo, l'aggressione alla costumista, l'assassinio che arriva solo all'ultima puntata) si snocciolavano davanti all'occhio annoiato dell'investigatore, quanto a quello che immagino semiaddormentato dello spettatore, senza un minimo di pathos, di partecipazione della macchina da presa, e diciamo la verità, anche quando l'assassino viene smascherato, unico momento concitato della storia, in realtà non ce ne frega più molto, tanto regia, sceneggiatura e montaggio sono riusciti a sopire ogni nostro più lieve interesse. Che certo non poteva essere sollecitato dall'introduzione nella storia della tematica omosessuale, peraltro utilizzata in senso abbastanza negativo, né tanto meno da quella ridicola e "posticcia" (concedetemi di utilizzare il termine usato proprio da D'Agata nel suo articolo) storiellina d'amore tra il commissario e la costumista, che il buon Durbridge non si sarebbe mai sognato di inserire in una sua storia neanche se si fosse scolato prima un paio di bottiglie di scotch. Ed anche i giornali sembrarono condividere la generale perplessità per questa curiosa operazione anglo-meneghina. Riporto qui il commento che scrisse Ugo Buzzolan su "La Stampa" del 7 dicembre (data dell'ultima puntata), come estrema sintesi del comune sentire: "Non era più semplice, più logico, e forse più economico, incaricare Giuseppe D'Agata di scrivere un copione originale considerato che egli è l'autore de "Il segno del comando? [...] ho l'impressione che la ricerca di un'atmosfera giallo-lombarda da parte dell'attento regista Alberto Sironi [...] abbia nociuto non poco al ritmo, troppo lento, e alla suspense, troppo scarsa. Non è che si pretendano ogni volta i gialli con le porte che cigolano e con i cadaveri che rotolano fuori dall'armadio, però...". Però, potremmo aggiungere noi, che barba questo nuovo giallo "neorealista"! Alla fine, il Durbridge "alla Scerbanenco" finì per risultare un piatto indigesto per ogni palato. Per rispondere alla domanda che ci ponevamo all'inizio, possiamo ipotizzare che probabilmente "Poco a poco" ebbe la sfortuna di essere prodotto in un momento di avvicendamento in Rai, con ancora qualche vecchio dirigente che cercava di puntare su un nome sicuro, come appunto quello dello scrittore inglese che nel quindicennio precedente aveva assicurato grandi ascolti e altissimi indici di gradimento, e i nuovi che invece tendevano ad un modo più italiano e più cinematografico (secondo loro) di raccontare le storie, e il caso volle che proprio questo ultimo lavoro di Durbridge abbia finito per fare nel modo peggiore da trait d'union tra i due concetti, finendo per non essere più, come suol dirsi, né carne né pesce. Fu forse questo a convincere definitivamente la Rai che il tempo per quel tipo di storie era ormai tramontato? Forse no, ma è un fatto che sono trascorsi ormai oltre trent'anni dal quel 1980, e mai più il nome di Durbridge è apparso sugli schermi italiani. Oggi la memoria dei vari "Melissa", "Harry Brent", ecc. è affidata alle raccolte in cofanetti DVD di Raitrade o della Fabbri, o al massimo a qualche riproposta notturna sui canali tematici del digitale terrestre, che si offrono all'occhio inumidito dalla nostalgia di qualche vecchio appassionato, o allo sguardo distratto di qualche nottambulo ventenne o trentenne che, abituato alla velocità delle moderne fictions poliziesche, si chiederà magari cosa ci trovassero mamma e papà di tanto emozionante in quei noiosi ed interminabili polpettoni di tanti anni fa. E poi con una spallucciata cambierà canale. Prima di concludere questa mia lunga disamina, ritengo sia utile includere l'elenco completo (corredato da alcune informazioni accessorie) delle serie televisive firmate da Durbridge tra gli anni '50 e '70, perché tutti possano rendersi conto di quanti scripts la Rai avrebbe avuto ancora a disposizione, pronti per essere trasposti in una versione italiana che non c'è mai stata e mai ci sarà. (Da questa lista sono stati esclusi "A casa una sera" e "Poco a poco", perché tratti non da serie TV ma da drammi teatrali.)
1952 The Broken
Horseshoe (inedita) Dalle prime cinque miniserie tv furono tratte altrettante riduzioni cinematografiche, di cui solo le ultime due, "Portrait of Alison" e "My Friend Charles" risultano uscite anche in Italia, rispettivamente nel 1955 e nel 1957, coi titoli "Il segno del pericolo" e "Il cerchio rosso del delitto". Di nessuna delle due si ha notizia di edizioni in VHS o DVD. Inoltre voglio ricordare a chi fosse eventualmente interessato a recuperarli, che alcuni degli sceneggiati inediti in Italia di Durbridge hanno visto nel nostro paese almeno tradotti i romanzi che ne erano stati tratti a suo tempo. Nell'ordine, "Portrait of Alison", con il titolo "Ritratto di Alison", pubblicato nel Giallo Longanesi n.135 del 2 Ottobre 1974; "My Friend Charles", col titolo "...dai nemici mi guardo io", ripubblicato nei Classici del Giallo Mondadori n.1203 del 25 Settembre 2008; "The Desperate People", col titolo "I disperati", pubblicato nel Giallo Mondadori n.965 del 30 Luglio 1967; infine "Breakaway", col titolo "Il prezzo del tradimento", pubblicato nel Giallo Mondadori n.1903 del 21 Luglio 1985. A parte "...dai nemici mi guardo io", che dovrebbe essere abbastanza facile da trovare, per gli altri non sarà una passeggiata, siete avvisati. Comunque, a chi volesse cimentarsi, buona caccia. |
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bearbeitet am 27.12.2013 |
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