Dopo decenni in cui si era sempre ritenuto che il giallo fosse inadatto
ai solatii panorami italiani, e gli intrighi delittuosi inscindibili
dalle nebbiose strade di Londra o dai tortuosi vicoli di qualche
metropoli americana, dapprima timidamente negli anni '60, con i film di
Mario Bava ("La ragazza che sapeva troppo"; "Sei donne per l'assassino"),
e poi agli inizi degli anni '70 con l'arrivo di Dario Argento ("L'uccello
dalle piume di cristallo"; "Il gatto a nove code"; "Quattro mosche di
velluto grigio") e dei suoi epigoni che formarono un solido gruppo di
registi specializzati in film gialli dalle tinte fosche e violente,
passati alla storia come "thrilling all'italiana", il cinema aveva
insegnato che il punto non era dove le storie venivano ambientate, ma
come venivano raccontate. Il successo di queste pellicole aprì le porte
della televisione ad Argento che nel 1973 portò qualche stralcio dei
suoi incubi metropolitani sul piccolo schermo con la breve serie di
telefilm "La porta sul buio". Frenando moltissimo sul sangue e la
violenza di cui erano generalmente intrise le sue storie
cinematografiche, Argento confezionò, con l'aiuto di alcuni suoi
collaboratori di lungo corso, Luigi Cozzi, Alberto Pariante, Mario
Foglietti, quattro episodi autoconclusivi, quattro mini-film di un'ora
l'uno che scossero profondamente con la loro tecnica e la loro crudezza
i canoni un po' ingessati del giallo televisivo della Rai. Ma
soprattutto fecero capire che se una storia ben confezionata avveniva in
un contesto che lo spettatore conosceva bene, poteva ottenere un effetto
anche superiore. Un delitto commesso in una qualche lontana città estera
poteva rientrare quasi nell'ordine della fiaba, del gioco. Mentre invece
uno perpetrato tra le mura di un appartamento romano, milanese, o
napoletano, che avrebbe potuto benissimo essere quello della porta
accanto, dava al tutto un sapore più inquietante.
E i nuovi autori che crescevano proprio in quegli anni nella Rai colsero
al volo la lezione. Da Felisatti e Pittorru con "Qui Squadra Mobile" e
"Albert e l'uomo nero", a Biagio Proietti e Diana Crispo con "Dov'è
Anna?", "L'ultimo aereo per Venezia" e "Doppia indagine", gli anni '70
furono tutta una riscoperta delle ambientazioni nostrane per il giallo.
E che tutto questo ovviamente rientrasse perfettamente in una nuova
politica di maggior parsimonia nelle spese non era solo una felice
coincidenza. Ma la Rai si spinse anche più in là, imponendo
ambientazioni italiane anche per le vicende scritte da autori stranieri.
A partire proprio da quelle di Francis Durbridge.
E la prima storia di Durbridge a subire questa "italianizzazione
forzata" fu nel 1976 "Dimenticare Lisa", tratta da "The Doll", uno
script in tre puntate che l'autore inglese aveva prodotto per la BBC
appena l'anno prima. A differenza, infatti, dei decenni '50 e '60, in
cui la televisione inglese mandava in onda le sue mini-serie divise in
sei puntate di 30' circa l'una, negli anni '70, la politica aziendale
era cambiata e si era deciso per una compattazione delle storie in tre
puntate di 60'. Già nel 1971, con il suo script precedente, "The
Passenger" (che come molti altri suoi copioni per la televisione non ha
mai avuto una versione italiana), Durbridge si era trovato a dover
concentrare la vicenda in tre capitoli, diluendo sapientemente la
suspence, con un più approfondito scavo psicologico dei personaggi e una
migliore preparazione delle situazioni, frutto anche del suo recente
amore per il palcoscenico. Quindi con "The Doll" non fece altro che
affinare ulteriormente questa evoluzione delle sue tecniche di
giallista, scrivendo quella che è ritenuta da molti l'opera migliore del
suo ultimo periodo di autore televisivo. Tuttavia la versione italiana,
a prescindere dalla differente collocazione territoriale e dai soliti
cambiamenti dei nomi dei personaggi, alcuni dei quali stavolta
giustificati proprio dalla diversa ambientazione, o delle loro
professioni (il protagonista nella storia originale è un editore e non
un antiquario) subì delle modifiche che pur non minandone l'impatto nel
complesso, diedero soprattutto al finale un'interpretazione piuttosto
lontana da quella voluta dall'autore.
Ma esaminiamo rapidamente la trama dello sceneggiato: Peter Goodrich, un
antiquario inglese che vive a Napoli dove gestisce una galleria, conosce
per caso di ritorno in volo da un viaggio, una ragazza americana, Lisa
Carter e se ne sente subito attratto. La simpatia pare reciproca, ma la
cosa potrebbe finire lì se casualmente Peter non la incontrasse di nuovo
pochi giorni dopo in un garage dove Lisa vuole prendere a noleggio una
macchina. L'uomo le offre di utilizzare la sua e fra i due sembra
sbocciare qualcosa. Prima da un amico giornalista, Max Finney, e poi
dalla stessa donna, Peter apprende le drammatiche circostanze in cui
Lisa ha perso il marito Norman, caduto in mare da uno yacht durante una
traversata sul Mar Tirreno. Lisa gli racconta che Norman era
ossessionato dalla sua passione per le bambole di cui aveva una vasta
collezione e che la notte della sua scomparsa, i due avevano avuto un
violento alterco perché lei aveva dimenticato di mettere nel bagaglio
l'ultima bambola da lui acquistata. Successivamente non trovando il
marito da nessuna parte sullo yacht, Lisa si era allarmata, finché aveva
scoperto terrorizzata una bambola a galla nella vasca da bagno. La
scoperta della bambola aveva preceduto solo di poche ore quella del
corpo di Norman, morto annegato. L'inchiesta della polizia non aveva
portato a nessuna conclusione certa anche se c'era chi aveva parlato di
suicidio. Lisa pare ancora sconvolta dalla recente tragedia e sta
recandosi per una visita da un caro amico del marito, Sir Arnold Wyatt,
un vecchio avvocato inglese in pensione che vive in una villa nei
dintorni. Volendo rivedere la donna, Peter le dà in prestito la sua
auto, con l'impegno che gliela restituisca al ritorno. Ma Lisa non torna
nè quella sera, né il giorno dopo, e Peter ha la sorpresa di vedersi
riportare la macchina da dei poliziotti. La sua auto infatti è stata
ritrovata su una strada deserta con un biglietto con sopra il suo
indirizzo, ma senza chiavi. Sempre più perplesso e preoccupato, Peter
decide di recarsi alla villa di Sir Arnold, ma qui lo attende la
sorpresa più inattesa: Sir Arnold afferma di non aver mai conosciuto o
sentito parlare nè di Norman né di Lisa Carter e nega assolutamente che
quest'ultima gli sia mai venuta a fare visita. L'atmosfera nella villa è
comunque misteriosa, e nel parco Peter vede aggirarsi una bambina che
stringe tra le braccia una grossa bambola. E una bambola dello stesso
tipo ritroverà a galla nella vasca da bagno del suo appartamento. Poco
prima che la polizia venga a prelevarlo per portarlo sul luogo in cui è
stato ritrovato il cadavere di una donna, ripescata in mare con nella
borsetta le chiavi della sua auto...
E fermiamoci qui per non rivelare altri dettagli della diabolica
macchinazione che si nasconde dietro la misteriosa Lisa e la sua
scomparsa. Basti dire che di volta in volta nella storia si affacceranno
personaggi ambigui ed altri forse solo apparentemente amichevoli, come
il già citato Max Finney, il non ancora citato ma fondamentale Claude
Goodrich, famoso concertista e fratello di Peter, il fotografo Marino
che sembra stranamente in possesso di una foto di Lisa che poi ancor più
misteriosamente scompare, Greta Lehman, la governante di Sir Arnold, lo
stesso Sir Arnold Wyatt che potrebbe nascondere più cose di quanto non
appaia, ed un non meglio identificato colonnello Osborne, dei servizi
segreti americani, che pare in possesso di tutte le risposte, e lascia
invece dietro di sé più enigmi che soluzioni. Il sinistro tema delle
bambole a galla sull'acqua che sembrano spuntare in concomitanza con il
ritrovamento di cadaveri in mare o altrove, rende la vicenda
particolarmente inquietante ed altri morti si aggiungeranno intorno al
povero Peter, per il quale Lisa è ormai diventata un'ossessione, prima
che la storia giunga ad un finale che, come accennavo prima, sarà però
piuttosto diverso da quello originariamente pensato da Durbridge. Ma di
questo parleremo più diffusamente in fondo a questo capitolo.
Nell'ottica della lotta agli sprechi della nuova Rai riformata,
"Dimenticare Lisa" venne trasmesso in sole tre puntate (come la versione
originale, ma con una diversa scansione nei finali di puntata), mandate
in onda in tre sabati consecutivi dal 9 al 23 Ottobre 1976 sulla Rete 1.
Diretto con buon mestiere da Salvatore Nocita, che l'anno prima era
stato il regista del fantascientifico "Gamma", aveva tra gli interpreti
Ugo Pagliai (Peter Goodrich), ormai un abitué di teleromanzi del mistero
("Il segno del comando", "L'amaro caso della baronessa di Carini"), ma
di ritorno in una storia di Durbridge ben tredici anni dopo "La
sciarpa", Marilù Tolo (Lisa Carter), Carlo Enrici (Claude Goodrich),
Yanti Sohmer (Greta Lehman), Luciano Melani (Max Finney), Tonino Cuomo
(il fotografo Marino), Lucio Flauto (il commissario Bonetti), Sergio
Rossi (il colonnello Osborne), ed il grande Emilio Cigoli, "voce
italiana" dei più famosi divi di Hollywood, John Wayne e Gary Cooper in
testa, nella parte di Sir Arnold Wyatt.
Sostenuto anche dalle belle musiche di Pino Calvi (con l'aggiunta come
sigla finale e tema di sottofondo alle apparizioni della seducente
Marilù Tolo, niente di meno che dell'ever-green "I Only Have Eyes For
You", nell'esecuzione di Art Garfunkel), lo sceneggiato regge piuttosto
bene il cambio di ambientazione, proiettando gli spettatori
nell'affascinante intrigo di Durbridge, e facendo subito dimenticare gli
insoliti luoghi in cui si svolge. Così Londra diventa Napoli, e Poole
Harbour e Heatherdown nel Dorset divengono la Marina di Seiano e Meta di
Sorrento sulla Costiera Sorrentina senza che la storia subisca troppi
contraccolpi.
I contraccolpi li subisce invece quando, per motivi non sempre
facilmente decifrabili, il meccanismo attentamente regolato da Durbridge
viene caricato di elementi estemporanei che poco o nulla hanno a che
vedere con la trama originale. Abbiamo già visto come fin dall'inizio i
copioni dello scrittore inglese venivano "gonfiati" dagli adattamenti
della Rai per raddoppiare la durata delle puntate, da trenta a sessanta
minuti, ma lasciando sostanzialmente invariati gli eventi e la loro
successione; poi negli anni a seguire, con l'intervento di un vero e
proprio sceneggiatore come Biagio Proietti, si arrivò anche ad inserire
nuove trame e addirittura finali posticci (la storia aggiunta del racket
delle scommesse in "Come un uragano", e il doppio colpevole in "Lungo il
fiume e sull'acqua"), ma il tutto veniva fatto con grande abilità, e in
qualche caso il testo originale ne usciva perfino migliorato. Qui invece
la traduttrice Franca Cancogni, a cui si deve anche l'adattamento dello
script, è da ritenere responsabile (se davvero fece tutto da sola) di
alcuni "scivoloni" che non trovano molte giustificazioni. Ne riferirò
uno solo, che non coinvolge indizi risolutivi, ma che ha sollevato
parecchie perplessità. Nel finale della prima puntata, Peter torna a
casa e vede la porta aperta e le luci accese. Dentro qualcuno sta
facendo a pezzi con un rasoio la bambola che aveva trovato nella sua
vasca. Primi piani sulle mani di questo misterioso individuo, poi Peter
entra ed esterrefatto scopre suo fratello Claude che lo fissa con occhi
sbarrati, quasi da pazzo. Subito titoli di coda e fine della puntata.
Emozionante, vero? Peccato, però, che nulla di questo esista minimamente
nel copione originale di Durbridge. Si è trattato infatti di una di
quelle trovate estemporanee di cui parlavo. Tanto è vero che nella prima
sequenza della puntata successiva, i due si fanno una bella risata
liquidando la cosa in un battibaleno. Ora c'è da chiedersi quale
funzione potesse avere mai una scena del genere. Gettare sospetti anche
sull'apparentemente angelico Claude? Ma non ce ne sarebbe stato alcun
bisogno, perché avrebbe provveduto successivamente lo stesso Durbridge a
farlo, e in modo di certo più sensato. Oppure creare un cliff-hanger,
cioè un colpo di scena ad hoc? Anche questa ragione appare discutibile,
visto che Peter ha appena scoperto una di quelle malauguranti bambole a
galla nella sua vasca da bagno e subito viene chiamato ad identificare
il cadavere di una donna con addosso le chiavi della sua auto. Mi sembra
che come cliff-hangers non ci si potesse lamentare. Insomma, per farla
breve, una scena assolutamente pretestuosa ed ingiustificabile. Non la
sola, purtroppo, come dicevo, ma delle altre tacerò perché rivelerebbero
particolari importanti della trama.
Un discorso a parte lo merita invece lo scioglimento finale, e qui dovrò
fare degli equilibrismi per spiegarmi cercando nel contempo di non
svelare troppo, ma è una cosa che va detta.
La soluzione confusa ed ambigua dello sceneggiato, per molti versi assai
insoddisfacente e che lascia tante domande sostanzialmente irrisolte, è
perfettamente in linea con il genere di polizieschi televisivi,
cinematografici e letterari dell'epoca. Erano quelli che sarebbero poi
stati ricordati come gli "anni di piombo". L'Italia era stretta in una
morsa di crimini riconducibili ad organizzazioni politiche estremiste
che si ipotizzava avessero legami con servizi segreti italiani e
stranieri, mossi da fini eversivi e i cui vertici restavano sempre
nell'ombra, cioé la cosiddetta “strategia della tensione”. Era fatale
che scrittori e sceneggiatori si facessero influenzare. Già nel cinema,
titoli di film come "La polizia ringrazia", "La polizia ha le mani
legate", "La polizia sta a guardare", denunciavano a modo loro uno stato
che era ostaggio dei cosiddetti "poteri forti" ed in cui i poliziotti
diventavano, o ciechi strumenti di repressione, o emarginati che
invocavano inutilmente giustizia, finendo per cercarla magari attraverso
la canna di una pistola. Anche in tv, attraverso le cronache e le
inchieste giornalistiche, questa realtà era finita per arrivare, e la
fiction era solo il passo successivo. Il finale di "Dimenticare Lisa" è
molto probabilmente frutto di questa atmosfera. La presenza nella storia
originale di agenti dei corpi speciali della polizia britannica che
agiscono in segreto, fornì il pretesto per inserirci un po' di
"dietrologia", insinuando il sospetto che dietro i tanti delitti della
vicenda si nascondessero in realtà chissà quali interessi occulti,
protetti dal denaro e dai suddetti "poteri forti". Tradendo però
totalmente Durbridge che è quanto di più lontano da queste cose. Nelle
sue storie, di qualunque media si avvalgano, radio, cinema, tv, teatro o
libri, i finali non lasciano mai incertezze. I colpevoli sono sempre
chiaramente indicati, e "The Doll" non fa eccezione. Quindi chi vuole
scoprire il vero finale della vicenda deve procurarsi una copia del
Giallo Mondadori n.1847 del 24 Giugno 1984, di non difficile
reperibilità, dove venne pubblicata la versione romanzata col titolo "La
bambola sull'acqua". Lì troverà l'autentica soluzione dell'enigma, piena
e soddisfacente, e potrà dare un volto chiaro e definito al misterioso
organizzatore di un complesso intrigo a base di ricatti ed omicidi.
Text:
Antonio Scaglioni |