Nei primi anni '70
soffiavano venti di rinnovamento sull'Italia televisiva. La concessione
ventennale esclusiva alla Rai per i servizi radiotelevisivi stava per
scadere, e mentre alle frontiere di lì a poco si sarebbero affacciate le
prime emittenti straniere (quelle che verranno popolarmente definite "TV
estere", TeleMonteCarlo, TeleCapodistria, la TV Svizzera), già a
settembre del 1972 un'emittente privata di casa nostra, Telebiella,
iniziava a trasmettere con una certa regolarità. Insomma, stava
cominciando ad avvertirsi una certa aria di novità e, anche se in
concreto non sarebbe avvenuto niente di rilevante ancora per un po',
avrebbe portato alla fine alla cosiddetta "Riforma della Rai", che
avrebbe cambiato profondamente il modo di fare e vedere televisione nel
nostro paese.
Ma le novità non
sarebbero state solo amministrative, e proprio il 1972 rappresentò,
consapevolmente o no, un punto di svolta per la fiction alla Rai,
che con "A come Andromeda" si aprì ad un genere nuovo per gli
sceneggiati, la fantascienza, che porterà negli anni risultati
interessanti ma discontinui. Diretto da Vittorio Cottafavi, "A come
Andromeda" fu realizzato con la stessa tecnica utilizzata per Durbridge,
prendendo, cioè, un copione televisivo inglese (firmato da Fred Hoyle e
John Eliot, tradotto e adattato da Inisero Cremaschi), e girandone una
versione con attori italiani, in questo caso Luigi Vannucchi, Paola
Pitagora e Tino Carraro, tra gli altri.
Anche il giallo,
però, aspirava a rinnovarsi, cercando, ad esempio, nuovi sbocchi nelle
storie di Friedrich Dürrenmatt, "Il giudice e il suo boia" e "Il
sospetto", dirette da Daniele D'Anza, entrambe trasmesse in due puntate,
con Paolo Stoppa nella parte del problematico e angosciato commissario
Barlach, che trasformavano la classica detective-story in un
claustrofobico racconto esistenzialista. Questi due brevi sceneggiati
risultarono importanti perché preannunciavano un nuovo modo di fare
giallo in tv. I nuovi autori che crescevano alla Rai, registi e
sceneggiatori, ispirati dal cinema soprattutto europeo della fine degli
anni '60, rifuggivano i "generi", guardati per lo più con sospetto, se
non con disprezzo, e se proprio dovevano affrontarli volevano farlo da
un nuovo punto di vista. Nel caso del giallo, queste nuove leve davano
il bando al poliziotto "tutto d'un pezzo", quella macchina investigativa
che aveva la sola funzione di svolgere indagini e smascherare assassini,
rifiutando in pratica la struttura tipica del racconto poliziesco (delitto-indagine-soluzione),
per concentrarsi di più sui personaggi che, secondo loro, dovevano
smettere di essere semplici marionette di un gioco studiato a tavolino,
e diventare esseri umani realistici, con tutti i pregi e tutti i difetti
degli esseri umani reali. Destrutturare l'impianto poliziesco classico
significava anche, proprio come nella realtà, perdere la certezza che
ogni enigma trovasse una spiegazione. Nei nuovi gialli, le indagini
procedevano a fatica, la soluzione era incerta, e gli assassini, ammesso
si riuscisse ad identificarli, o risultavano poveri disperati più
vittime che colpevoli, o addiritura riuscivano a sfuggire alla legge
perché protetti da "poteri forti" che ne assicuravano l'immunità.
Insomma, questa nuova filosofia di giallo, che potremmo definire "neorealista",
strappava il genere al mondo della fantasia, dove la giustizia finiva
sempre per trionfare, per precipitarlo nella realtà di tutti i giorni,
in cui sappiamo bene che raramente questo avviene.
E uno di questi
nuovi autori era proprio Biagio Proietti, che segnò un po' il confine
tra i due modi di "pensare" il giallo, l'antico e il moderno. Avendo
iniziato la sua carriera in Rai scrivendo gialli a puntate di impianto
classico, che fossero di sua mano, come "Coralba", o adattamenti di
opere altrui, come appunto i gialli di Francis Durbridge, Proietti aveva
comunque inserito elementi innovativi, a cominciare proprio dalle figure
dei poliziotti, umani al punto di apparire grigi ed anonimi come
l'ispettore Milton di "Un certo Harry Brent", ampliando poi negli anni
il discorso fino ad arrivare nel 1976 a "Dov'è Anna?", forse la sua
opera più conosciuta e ricordata come autore televisivo, in cui le
indagini sulla scomparsa di una donna si sviluppano attraverso sette
puntate, piene di errori, di false piste, di vicoli ciechi, proprio come
quelle che si svolgerebbero nel mondo reale, e proprio come quelle
facendo temere che non trovino mai uno sbocco risolutivo, e quando alla
fine il mistero si dissolve, non c'è catarsi, nessuna soddisfazione,
resta solo l'amarezza; e il commissario Bramante (Pier Paolo Capponi) si
lascerà sfuggire una frase emblematica: "Era tanto tempo che non
risolvevo più un caso, che avevo dimenticato quanto possa essere
terribile la verità."
Nel 1972, questi
movimenti sono ancora in nuce, ma probabilmente non può considerarsi un
semplice caso il fatto che, quasi in contemporanea, due pilastri del
giallo televisivo più classico della Rai che avevano tenuto compagnia al
pubblico dalla prima metà degli anni '60 e oltre, vengano "pensionati"
forzatamente proprio in quell'anno. Mentre il commissario Maigret,
interpretato da Gino Cervi per 34 episodi, suddivisi in quattro cicli di
grande successo, in "Maigret in pensione" finisce davvero per ritirarsi
a vita privata, l'altro baluardo del poliziesco autoctono, il tenente
Sheridan, al secolo Ubaldo Lay, nato addirittura alla fine degli anni
'50 nel gioco a quiz "Giallo Club", fa appena a tempo a smascherare il
suo ultimo colpevole ne "La donna di picche", che concludeva il suo
poker di donne, prima di essere abbattuto da un colpo d'arma da
fuoco il 7 aprile del 1972, dopo 13 anni di successi. A questi potremmo
aggiungere Nero Wolfe, del grande Tino Buazzelli, che aveva però risolto
il suo ultimo caso nel 1971. Comunque sia, la "morte", civile o fisica,
di queste colonne del giallo, in un periodo di tempo relativamente
breve, segnò un momento indubitabilmente importante per la fiction
tv in Italia, e fece capire che un'epoca, e con essa un certo modo di
fare televisione, stava chiudendosi.
Anche per Durbridge,
il 1972 rappresentò una svolta. Venne infatti girato quello che sarà
l'ultimo degli sceneggiati "lunghi" ricavati dai copioni dello scrittore
inglese, cui seguirà una pausa che terrà il nome di Durbridge lontano
dagli schermi della Rai in prima serata (repliche escluse) per quasi tre
anni e mezzo, ma anche quando vi tornerà non sarà più la stessa cosa.
D'altro canto anche nella stessa Inghilterra, gli sceneggiati televisivi
di Durbridge si facevano sempre più rari. Dopo averne realizzati 16 tra
il 1952 e il 1966, lo scrittore, dopo un intervallo durato ben cinque
anni, nel decennio dal 1971 al 1979, quando chiuderà la sua carriera di
autore televisivo per dedicarsi con maggior impegno al teatro, fornirà
alla BBC solo tre copioni.
Per amor di
precisione, va anche ricordato che tra il 1969 e il 1971, la BBC
produsse, in collaborazione con la televisione tedesca, tre stagioni di
una serie di telefilm intitolata "Paul Temple", con protagonista lo
scrittore-detective, creato da Francis Durbridge per la radio circa
trent'anni prima, ma ancora allora popolarissimo. Dei 52 episodi totali,
la Rai ne trasmise solo tredici, in maniera peraltro molto discontinua
tra l'Ottobre del 1972 e il Novembre del 1973, ma al di là della
simpatia dei due protagonisti, Francis Matthews, nella parte di Paul
Temple, e Ros Drinkwater, in quella della moglie Steve, i telefilm
restavano molto distanti dalle tipiche storie di Durbridge. Questi
infatti, aveva concesso solo lo sfruttamento dei suoi due personaggi e
mai firmò nessuno degli episodi, né come sceneggiatore, né come
soggettista.
Intanto il nuovo
telegiallo, girato come di consueto in piena estate e presentato su
tutti i giornali con il titolo di lavorazione "L'altro uomo" (traduzione
fedele dell'originale "The Other Man" del 1956, il più vecchio copione
di Durbridge mai realizzato fino ad allora in versione italiana), con la
traduzione della solita fedelissima Franca Cancogni e l'adattamento (ancora,
ma per l'ultima volta) di Biagio Proietti, fu affidato ad Alberto Negrin,
un giovane alla sua prima regia di un giallo televisivo. Negrin (che
dirigerà negli anni a seguire opere importanti per la Rai, come "Il
picciotto" nel 1973, debutto televisivo di Michele Placido come
protagonista, "Majachowsky" nel 1976, "Io e il duce" nel 1985, e il
kolossal internazionale "Il segreto del Sahara" nel 1987, solo per
citarne alcuni) aveva una formazione cinematografica e documentaristica
e la utilizzerà in modo originale nella storia di Durbridge, realizzando
di fatto più che uno sceneggiato, un vero e proprio film televisivo.
Ma riassumiamo prima
per sommi capi la vicenda, che prende le mosse dal ritrovamento sull'Happy
Time, una casa battello sulle rive del Tamigi, ad Hampton, ancora
una volta una cittadina a pochi chilometri da Londra, di un cadavere dal
volto sfigurato. Il corpo viene identificato per quello di Paolo Morani,
uno scienziato italiano residente in Inghilterra. La barca sulla quale è
stato rinvenuto appartiene ad un certo James Cooper, di cui però nessuno
sembra avere notizie da parecchi giorni. Nell'interrogare le persone
presenti quel giorno nelle vicinanze dell'Happy Time, l'ispettore
Ford, un poliziotto vedovo che ha lasciato la grande città per
trasferirsi insieme al figlio Roger in un posto più a sua misura,
incontra Katherine Sheldon, la nipote del medico locale, in vacanza
presso lo zio, che afferma di aver visto scendere dalla barca un uomo
che si è poi allontanato su una macchina passata a prenderlo. La ragazza
non sa chi sia ma ritiene di poterlo riconoscere se lo rivedesse. Ed è
quanto accade, quando durante una partita a tennis con lo zio nel campus
dell'università locale, riconosce nel professor David Henderson, stimato
docente dell'ateneo, proprio l'uomo che ha visto scendere dall'Happy
Time il giorno della scoperta del delitto. La dichiarazione della
ragazza, molto sicura di sé, mette in grave imbarazzo l'ispettore Ford
che ha con Henderson un grosso debito di gratitudine per aver consentito
a suo figlio di accedere al college, grazie ad una borsa di
studio, nonostante le loro precarie condizioni finanziarie. Ford
all'inizio non vorrebbe crederci, ma gli indizi a carico del professore
si accumulano sempre più e l'atteggiamento contraddittorio di questi che
gli mente a più riprese non aiutano di certo. Coadiuvato fuori
dall'ufficialità nelle indagini dal cognato Bob Marshall, ex poliziotto
ora datosi alla carriera di pubblicitario che sembra non aver
dimenticato il suo antico mestiere, Ford incontrerà altri personaggi,
come la bella Billie Reynolds, che abita nel battello accanto, lo
Xanadu, e che potrebbe aver visto molto, ma che per motivi suoi ha
deciso di tenerlo per sé; Ralph Merson, il riccone locale, che per
nascondere una sua relazione con la stessa Billie si confida in segreto
con Ford; oltre all'ambizioso giornalista Robin Craven all'eterna
ricerca dello scoop della vita. Alcuni nuovi delitti
confonderanno ancora di più il già confusissimo ispettore, che se la
dovrà vedere con intrighi internazionali e scontri tra organizzazioni
spionistiche, ben lontani dal suo placido mondo di poliziotto di
provincia.
Anche se come dicevo
girato nell'estate del '72, la trasmissione del nuovo giallo che,
abbandonato il titolo di lavorazione, fu ribattezzato, in omaggio al
tema ricorrente del fiume su cui si svolge gran parte della vicenda, "Lungo
il fiume e sull'acqua", venne posticipata al gennaio dell'anno dopo e
andò in onda in cinque puntate, in appuntamento bisettimanale al sabato
e martedì, dal 13 al 27 Gennaio 1973. Nel cast, troviamo tra gli altri.
Giampiero Albertini, perfetto nel ruolo dell'ispettore Ford (versione
Biagio Proietti); Sergio Fantoni come il professor Henderson, Laura
Belli come Katherine Sheldon, Renato De Carmine come Bob Marshall,
Francesco Carnelutti come Robin Craven, Franco Graziosi come Ralph
Merson, e Nicoletta Machiavelli come Billie Reynolds. Nella parte di
Roger, il figlio dell'ispettore Ford, troviamo poi un giovanissimo
Daniele Formica, ancora lontano dall'immagine di attore comico e di
cabaret che si sarebbe data negli anni seguenti.
Il copione di
Durbridge, per altro piuttosto datato, essendo stato scritto circa un
quindicennio prima, venne attualizzato ed ampliato da Proietti che, come
in quelli precedenti, allungò scene e dialoghi, inserendo molti elementi
che nel testo originale erano solo accennati, ricostruendo rapporti e
parentele tra i personaggi, con l'aggiunta di morti e perfino di un
ulteriore finale che smascherava negli ultimissimi istanti dell'ultima
puntata il doppio gioco di un complice "nascosto" del colpevole,
ribaltando completamente l'originale lieto fine di Durbridge.
Purtroppo uno
sciopero dei tipografici, proprio nel periodo della trasmissione, che
impedì un'uscita regolare dell'indispensabile Radiocorriere TV,
distribuito per diversi numeri incompleto nei servizi e
nell'impaginazione, rende oggi piuttosto lacunose le notizie intorno a
questo sceneggiato. Non ci sono pertanto articoli ed interviste agli
attori o al regista che lo confermino, ma mi pare di poter osservare che,
probabilmente in ossequio al nuovo concetto di giallo che stava nascendo,
stessero andando un po' a cadere tutte quelle cautele che erano state
utilizzate in precedenza per proteggere il nome del colpevole da
indiscrezioni. Anche se molti, ma non tutti, i nomi dei personaggi
originali vennero cambiati, non si hanno infatti voci di tripli finali o
di copioni chiusi in casseforti ed estratti solo all'ultimo momento, nè
tanto meno di funzionari addetti a sorvegliare le riprese. Questo non
significa che non ci siano stati, forse lo sciopero cancellò i servizi
che le avrebbero raccontate, ma è anche possibile che la cosa non
suscitasse più la curiosità di una volta nella stampa. Anche i giornali
stavano infatti mutando atteggiamento verso eventi televisivi che non
avevano più la risonanza di un tempo. Non solo, erano anche cominciate
su alcuni quotidiani delle campagne di aperta critica agli "sprechi"
della tv di stato nella produzione di spettacoli, che fossero di varietà
o di fiction, che costavano enormi quantità di denaro. I tempi
stavano decisamente cambiando. Le reazioni di stupore quasi fanciullesco
davanti alle sontuose scenografie ed alle esibizioni di lustrini e
paillettes degli anni '50' e 60 entravano in archivio per sempre,
lasciando il posto ad uno spirito più critico e perfino polemico da
parte della stampa del settore. Nel campo degli sceneggiati, le critiche
riguardavano anche le sempre più costose trasferte all'estero che, come
abbiamo visto, in particolare nei gialli di Durbridge, erano diventate
frequentissime. E ovviamente, in questo, "Lungo il fiume e sull'acqua"
non faceva eccezione. Anzi, la regia molto cinematografica di Negrin usò
con grande dovizia di mezzi i consueti esterni inglesi, da Londra a
Liverpool, passando per la cittadina di Hampton sulla riva del Tamigi, a
sud della capitale, dove vennero girate la maggior parte delle scene in
esterno. Negrin utilizzò, inoltre, una tecnica molto innovativa
all'epoca. Sfruttando la sua esperienza di documentarista e di regista
di film-inchiesta fece un largo utilizzo di telecamera a mano, seguendo
gli attori nelle strade, per i viali del campus, o i corridoi del
college, in lunghi piani sequenza, e riprendendo in primissimo piano
i volti dei protagonisti (soprattutto i bravissimi Fantoni e Albertini),
scavando nei loro tratti le emozioni dei personaggi, soffermandovisi
spesso anche quando a parlare erano i loro interlocutori, quasi a
spiarne le reazioni.
Questa nuova e
singolare tecnica di racconto televisivo spiazzò dapprincipio i
telespettatori, abituati a metodi di ripresa più ortodossi, che finìrono
comunque per premiare con ascolti record anche quest'ultimo giallo di
Durbridge, che con una media di quasi ventuno milioni a puntata riuscì a
portarsi addirittura al secondo posto della Top Ten dei programmi
più seguiti del 1973. (Ma segnaliamo anche i diciasette milioni che
seguirono la serie di telefilm "Paul Temple", e che fruttarono un più
che rispettabile nono posto, portando il nome dello scrittore inglese
per ben due volte in classifica nello stesso anno.)
Della colonna sonora,
resta soprattutto nella memoria ancora oggi la bellissima "Vincent",
canzone scritta ed eseguita da Don McLean, che sulle sue dolci note
accompagnava le quasi poetiche immagini della sigla iniziale e quelle
dei titoli di coda, entrata nelle orecchie e nei cuori della gente, al
punto da conquistare per settimane la vetta della "Hit-Parade"; ma non
sarebbe giusto dimenticare i molti affascinanti temi musicali composti
da Roberto De Simone, studioso appassionato di musica folkloristica (non
a caso fu tra i fondatori della Nuova Compagnia di Canto Popolare),
ispirati ad antichi motivi tradizionali inglesi che riempivano di echi
suggestivi la vicenda.
Text:
Antonio Scaglioni |